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Editoriale. Il Partito democratico tra progressismo e riformismo

Due donne a capo di maggioranza e opposizione di Governo, come non era mai successo prima in Italia. Ad Elly Schlein l'arduo compito di tenere unito un partito come il Pd, attraversato da numerose correnti interne. 

24/03/2023

E’ indubbio che le vere novità del quadro politico sono il successo elettorale di Giorgia Meloni e la sorprendente vittoria di Elly Schlein alle primarie del Partito democratico. Ora, la maggior forza di maggioranza (FdI) e quella di opposizione (Pd), hanno alla loro guida due donne, fatto unico nella storia della nostra democrazia. Per il momento, però, l’attenzione si concentra soprattutto sull’arduo compito che Schlein avrà nel guidare e, possibilmente, nel tenere unito un partito che si vanta di essere “plurale”, attraversato e condizionato da almeno 6-7 correnti interne, capitanate dai vecchi “capibastone” i quali, dopo la fusione nel 2007 tra l’ala progressista rappresentata dai Ds (ex Pc) e quella democratico riformista, laica e cattolica, della Margherita, hanno sempre fatto il buono e il cattivo tempo. Prova ne sia che, in quindici anni, il Pd si è “mangiato” ben nove tra segretari e reggenti, subendo pure una serie di scissioni, soprattutto a partire dal periodo della segreteria di Matteo Renzi. 

Una situazione difficile da gestire

Certamente, l’elezione imprevista della effervescente e giovanissima Schlein ai Gazebo (ove potevano votare anche i non iscritti al partito), sul più compassato e “istituzionale” Stefano Bonaccini, uscito invece vincitore dal voto dei tesserati nei circoli del partito, ha aperto nel Pd una fase nuova che, se da un lato può essere vista come promettente al fine di recuperare consensi a sinistra, nell’area dell’astensione e tra i 5S, dall’altro può trascinarlo su posizioni troppo di sinistra e laiciste (soprattutto sul fronte dei diritti e delle questioni etiche), con il conseguente distacco dei cattolici popolari che, in questa nuova fase, stanno indubbiamente vivendo un certo disagio. Per questo la neo segretaria dovrà gestire bene la situazione e non spostare troppo a sinistra l’asse del partito, perché farebbe il gioco solamente della vecchia “Ditta” e non garantirebbe più la originaria vocazione “plurale” del partito. Da parte sua, Matteo Renzi non fa mistero circa l’intento di attirare verso il suo centro liberale la fetta di cattolici e laici del Pd scontenti della nuova gestione. In questa nuova situazione, non ci è ancora dato da capire quanto potrà valere la mediazione di Dario Franceschini, il quale, finora, con la sua “Area dem” di ispirazione cristiano-democratica, è stato l’ago della bilancia degli equilibri interni al partito e ha sempre sostenuto il segretario di turno (compresa, oggi, Schlein).

Progressisti o riformisti?

Nel Pd le due anime o culture possono essere sostanzialmente identificate in quella progressista e in quella riformista. E’ noto che il progressismo è una metodologia politica tipica delle sinistre, che propugna il mutamento della società attraverso attuazioni innovatrici e, a volte, radicali, in campo sociale, politico, economico e sui diritti civili individuali. 

Allo stesso tempo il riformismo, caratteristico dell’area cristiano-democratica (ma non solo), pur opponendosi sia alla rivoluzione che al conservatorismo, intende modificare con riforme graduali l’ordinamento politico, economico e sociale del Paese. Di quest’area faceva parte anche Renzi il quale, però, durante la sua segreteria si è spinto molto verso una visione più centrista e liberale, provocando fratture e fuoriuscite e, alla fine, abbandonando egli stesso il Pd per fondare Italia Viva. E’ evidente che la classificazione tra progressisti e riformisti è molto debole e fluida, soprattutto nel campo dell’economia e dei limiti da porre al liberalismo, della finanza, della giustizia sociale, del mercato del lavoro, dell’attenzione ai poveri e alle classi sociali più deboli, ecc. Per questo riteniamo che su tali ambiti le varie anime del Pd possano trovare molti punti di incontro.

I temi scottanti

Quello che, però, maggiormente differenzia le due visioni politiche e che può essere fonte di forti tensioni è il campo dei diritti civili individuali. Ad esempio, l’area cattolica, da sempre, ha eretto una sorta di linea Maginot verso ogni ipotesi di maternità surrogata (o utero in affitto). Tuttavia, non mancano visioni diverse su temi sui quali è maggiormente sbilanciata la sinistra, come quelli delle famiglie omogenitoriali o “arcobaleno”; del riconoscimento, alla nascita, dei diritti dei “loro” bambini; del matrimonio egualitario per gli omosessuali e delle adozioni, dell’eutanasia. Più in generale sul riconoscimento dei diritti Lgbtq+, ossia delle “persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer” e di tutti coloro che non si sentono rappresentati sotto l’etichetta di donna o uomo eterosessuale.

Su questo fronte Schlein, al di là delle sue idee e della sua storia, dovrà evitare forzature e fughe in avanti. Al tempo stesso, se il Pd vuole essere fedele al suo progetto politico espresso nel “manifesto dei valori”, approvato anche dal recente Congresso, dovrà evitare di pensarsi e declinarsi sia come una riedizione della vecchia Democrazia cristiana (come, forse, pensavano Renzi e Calenda), sia come una forza di estrema sinistra. 

Il test delle elezioni europee

Il prossimo anno il Pd potrà, alle elezioni europee, misurare la propria capacità o meno di rigenerarsi come una forza di sinistra moderna e, appunto, plurale. Cinque anni di opposizione gli faranno senz’altro bene per ripensarsi e riproporsi ai cittadini e capire quali alleanze costruire. Riteniamo, infatti, che la preoccupazione del “continuismo” o di garantire la continuità e la governabilità del Paese che l’ha portato, pur non avendo mai vinto le elezioni, dal Governo Monti in poi (2011) a entrare in quasi tutte le maggioranze che si sono succedute (sei su sette), non gli abbia giovato molto per definire e consolidare la propria identità politica e per trattenere il proprio elettorato.

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