Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Lingua veneta: ha senso costruirne una?
Ogni provincia ha il suo "veneto" che, anche per questo, non è una lingua. Il veneto per diventare una lingua deve essere inventato, nel senso di costruito. Poi si deve “imporre” l’insegnamento e l’utilizzo. Ma per trasmettere cosa?
Faccio parte di una porzione di popolazione veneta che ha imparato l’italiano come lingua straniera a scuola. Nessuno a casa mia usava la lingua nazionale, tranne la televisione ma con la TV non puoi parlare, solo ascoltare. Alle elementari desideravo una materia chiamata lingua veneta pensando che avrei avuto il massimo dei voti. Non è andata così e non sarà mai così semplicemente perché non esiste una lingua veneta.
In Veneto ogni provincia ha la sua lingua veneta e se a Treviso una persona può odorare “da cagnon” a Venezia lo stesso odore viene detto “da moltrin”, cambiano gli animali (cane e montone) e i termini, ma la puzza è la stessa: da animale. A Treviso “fio” significa “filo”, quello che si infila nell’ago (usèa) ma a Mogliano Veneto, sempre in provincia di Treviso, significa “figlio” o “giovane”, indica quella persona che altrove è chiamata: fiolo, puteo o putin, toxo o toxato o toxeto. Nello stesso Veneto sono chiamate in modo diverso le piante e gli animali; la talpa ora è musighera (dal latino mus, muris), ora tompinara o topinera o tompinera (sempre dal latino: talpa, talpae), ora rumarioea (a motivo del “rumar”, smuovere la terra tipico dell’animale che infesta orti e campi). Così come tutti questi termini esistono nelle varie parlate venete e nessuno di questi può essere assunto come tipico veneto, così esistono molte lingue venete, più del numero delle provincie e quasi come il numero dei paesi. Tra Cavaso e Onigo ci sono pochi chilometri eppure da una parte si coniuga così il presente indicativo del verso essere: “mi son, ti te xi, lu xe, …” e dall’altra “mi son, ti tu sé, lu l’è, noantri son, valtri sé, lori i é”. Più bello ancora è il presente indicativo verbo giocare: “mi dughe, ti tu duga, lu ‘l duga, noantri dugon, valtri dughé, lori duga”, sempre in onighese. Per divertirvi provate a coniugare nel vostro dialetto veneto.
Non è una lingua
La Giunta regionale veneta, da diversi anni, è impegnata a promuovere la lingua veneta ma questa non esiste come tale. Anche se il veneto è parlato in tante parti del mondo non stiamo parlando della stessa lingua. Non tutti sanno che il veneto è parlato da milioni di persone in sei stati diversi: la metà di questi si trova in Italia, gli altri in Brasile e Messico (dove siamo emigrati a fine ottocento e primi del novecento), Istria e Dalmazia (a motivo delle conquiste di Venezia), fino in Romania (emigrati all’epoca dell’imperatore Checco Beppe).
Il caso del Brasile è significativo. Nello stato di Rio Grande do Sul si parla il Talian, un dialetto veneto con influenze portoghesi, questo si è imposto nella zona dove sono emigrati i veneti, al punto che anche emigranti di altre nazionalità usano il veneto come lingua locale. E’ veneto ma nessun veneto che abita in Veneto parla il Talian e farebbe fatica a capirlo perché infarcito di parole che non si usano più, con altre prese dal portoghese.
Il Comunicato stampa N° 1471 del 27 ottobre 2016 ci informa che “Sta giungendo a termine il lavoro, portato avanti da una specifica commissione istituita dalla Regione, per offrire la possibilità agli enti locali che vorranno aderire di sottotitolare la segnaletica dei nomi dei comuni e delle varie località in lingua veneta, utilizzando una grafia unitaria”. Come chiameranno Fanzolo? “Fandiol” come viene chiamato in modo orribile da alcuni o “Fansoeo” (con la “oeo” che si legge come un solo suono che in Italiano non c’è) come diciamo noi abitanti del grazioso paese? Ma soprattutto quanto costa questa commissione e la sostituzione dei cartelli che verranno cambiati in giro per il Veneto?
Costruire una lingua
Si può costruire una lingua, altri lo hanno fatto. Certo non è sufficiente avere una letteratura in quella lingua. Anche se Gadda ha scritto in romanesco uno dei gialli italiani più belli “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” non per questo quel romanesco è diventato la lingua dei romani e tantomeno dei laziali (ad esempio, i ciociari non la parleranno mai). Andrea Camilleri scrive innumerevoli romanzi ambientati a Vigata (paese inventato) usando il dialetto che parlava a Porto Empedocle (Agrigento) durante la sua infanzia ma per quanto piacciano le avventure del commissario Montalbano quel dialetto non diventerà la lingua dei siciliani.
Invece i gesuiti in Brasile, Paraguay e Uruguay, tra il XVI e il VII secolo, inventarono la lingua Tupì; un idioma parlato che essi hanno trascritto inventandone la grammatica, la semantica e la sintattica affinché fosse in grado di esprimere i concetti teologici che dovevano trasmettere agli indios. Costruirono una “lingua generale della costa” utilizzando “due apparati esterni alla cultura linguistica indigena utilizzata dai missionari e cioè la struttura grammaticale latina e i modelli di discorso proposti dai catechismi iberici” (“L’invenzione del Tupì”, Adone Agnolin, EDB, 2014). Poi la fecero parlare e scrivere. Ancora oggi in Paraguay si parla il Guaranì che trae origine da quell’esperienza.
Il veneto per diventare una lingua deve essere inventato, nel senso di costruito. Non basta togliere le doppie o la vocale finale come si fa ogni giorno in un radio giornale locale di Treviso, quello non è veneto.
Poi si deve “imporre” l’insegnamento e l’utilizzo. Ma questo si può fare se hai una cultura da esprimere, se hai un senso esistenziale da consegnare agli altri, se hai valori importanti da vivere. Altrimenti è innestare un ramo morto su un albero vivo, una cosa senza senso, la lingua è viva e parla la vita della gente. Senza polemica: dobbiamo chiederci come vive questo Veneto e se questo Veneto ha qualcosa da insegnare oltre ai termini: schei, prosecco, spritz? L’alternativa è un’operazione nostalgica che non sta nella propria storia attuale. E’ proprio così, o come dicono a Onigo: l’è vero vera!