Indubbiamente, quello che ci appare nel racconto è un Gesù umano, compassionevole e misericordioso verso...
Come la Serenissima affrontò le pestilenze senza rinunciare al commercio
Si cominciò nel 1348 e per tre secoli, a ondate successive, Venezia e l’Europa furono decimate dalla peste. Un quinto della popolazione morì nel 1348 e in quella del 1630 ci furono quasi 50 mila morti, un terzo della popolazione. L'invenzione della quarantena, il ruolo delle confraternite e dei lazzaretti.

La Repubblica Serenissima non ebbe mai la guerra in casa, subì molti rovesci sul mare o nei porti che controllava nel Mediterraneo, ma mai per la città corsero i nemici e si fece saccheggio, destino che invece la Repubblica riservò a Bisanzio. A spaventare a morte Venezia furono, invece, la peste, la peste nera ed epidemie di vario genere. Si cominciò nel 1348 e per tre secoli, a ondate successive, Venezia e l’Europa furono decimate dalla peste. Un quinto della popolazione morì nel 1348 e in quella del 1630 ci furono quasi 50 mila morti, un terzo della popolazione.
L’invenzione della quarantena
Per difendersi da questo nemico invisibile, i provveditori alla sanità si inventarono la quarantena. Si accorsero che una nave, proveniente da Oriente o comunque da zone a rischio, lasciata fuori dalla città per quaranta giorni rivelava eventuali epidemie: se non succedeva nulla, gli uomini potevano scaricare le merci, che nel frattempo erano state anch’esse “arieggiate”, e scendere a terra, altrimenti morivano tutti sulla nave. Nel 1511 Marin Sanudo, nei suoi diari, racconta di frati minori chiusi dentro il loro convento perché un frate si era ammalato, nessuno sopravvisse.
La regola della quarantena era ferrea, potevi essere principe o senzatetto, schiavo o cittadino l’ingresso era interdetto fino a che non passavano i quaranta giorni. L’8 giugno del 1630 Venezia viene meno a questa regola. Arriva l’ambasciatore del Duca di Mantova, marchese de Strigis, dove erano stati individuati dei focolai di peste. Costui, contrariamente a ogni norma, non venne messo in quarantena nel Lazzaretto Nuovo, ma nell’isola di San Clemente. Durante un intervento di manutenzione a San Clemente, un falegname venne contagiato e portò con sé in città il morbo. Saranno 16 mesi di morte, da 48 contagi in luglio, si passò a un migliaio a settembre e a 14mila in novembre.
Il doge Nicolò Contarini fece voto alla Vergine Maria di costruire una grande chiesa in suo onore: la realizzazione dell’attuale chiesa della Salute viene affidata a Baldassarre Longhena. La costruzione inizierà nel 1631, anno in cui l’epidemia regredisce, e sarà consacrata nel 1687. La preghiera è una costante della lotta contro le epidemie: ogni anno, la terza domenica di luglio ricorre la festa del Redentore, celebrata alla Giudecca nell’omonima chiesa, progettata dal Palladio, e iniziata nel 1577, come ex voto per la liberazione dalla peste.
Ma il commercio non si ferma
Quando arrivava la peste a Venezia si scappava verso le campagne, rimanevano solo i mercanti perché il commercio non poteva fermarsi, pena la scomparsa della città. Così, molti patrizi morivano proprio per rimanere in città e curare gli interessi della famiglia: dopo la peste del 1348, cinquanta famiglie patrizie veneziane scomparvero. Lo sforzo di mantenere operativa la città causava rallentamenti nell’intervento dello Stato, per un certo periodo ci si affidava alle confraternite, si chiamavano “Scuole”, per le cure. Le confraternite, diffuse in tutta Italia nel Medioevo, raccoglievano in un patto di reciproco aiuto i cittadini, nei loro statuti seguendo l’indicazione evangelica si impegnavano alla cura e all’assistenza dei confratelli. Con il tempo, queste forme associative ebbero risorse straordinarie grazie a lasciti testamentari e donazioni. A Venezia e nel Veneto rappresentarono la prima forma “welfare” e originarono ospedali, centri di assistenza, e contribuirono allo sviluppo sociale, artistico ed economico delle comunità in cui si trovarono inserite.
I lazzeretti
Quando la situazione diventava insostenibile lo Stato interveniva. Tra i provvedimenti più importanti ci furono la realizzazione dei lazzaretti, ovvero luoghi lontani dal centro cittadino dove si potevano ricoverare gli ammalati, tenendoli lontani dai sani. Il primo fu realizzato nel 1423: il Lazzaretto Vecchio, fu realizzato nell’isola di Santa Maria di Nazaret. Il secondo, il Lazzaretto Nuovo, nel 1468, nell’isola denominata Vigna Murada, lungo il percorso che porta a Torcello. Un ultimo lazzaretto venne realizzato nel 1793 nell’isola di Poveglia per salvaguardare la città
dall’arrivo di una nave di appestati. Nei lazzaretti lavoravano i monatti, i veneziani li chiamavano “pizegamorti”, che accettavano il rischio, in cambio di lauti stipendi da parte dello Stato, di occuparsi del recupero e sepoltura dei cadaveri, e molte prostitute che, divenute ormai inutilizzabili durante le epidemie, venivano mandate a lavorare nelle baracche degli appestati.
Il colera e Thomas Mann
Difficile sempre la gestione delle epidemie, la Serenissima era stretta tra il bisogno di contenere la peste e nel contempo far funzionare i commerci, una città che “non ara e non semina” non può pensare di vivere senza gli scambi commerciali.
Le regole erano ferree, ma spesso non all’inizio la malattia. Un aspetto che ritroviamo in epoca moderna, nel 1911. Thomas Mann, nel suo romanzo “Morte a Venezia”, racconta che mentre il protagonista del romanzo passeggia per Venezia avverte a più riprese un odore “dolciastro farmaceutico” e sui muri compaiono manifesti “che invitavano paternamente la popolazione, in seguito a certe malattie gastrointestinali, prevedibili con un tempo simile, a non cibarsi di ostriche e frutti di mare, e a guardarsi anche dall’acqua dei canali”. Così chiede a un negoziante la ragione di quell’odore. “Misure precauzionali, signore! Una disposizione della polizia che non si può non approvare. Quest’afa, questo scirocco non sono favorevoli alla salute. Insomma, lei capisce, una precauzione forse esagerata...”. In realtà, nel 1911 c’era il colera. Tra negozianti e albergatori però si minimizzava e ancora oggi, se si consultano i bollettini comunali di quell’anno, non si trova nessuna segnalazione dell’epidemia