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Intervista a Patrick Zaki: i Paesi sicuri sono quelli che rispettano i diritti

L’attivista egiziano ha presentato il suo libro da Lovat e agli studenti trevigiani
14/02/2025

Una libreria Lovat gremitissima ha accolto, domenica 9, Patrick Zaki, in occasione della presentazione del suo libro “Sogni e illusioni di libertà. La mia storia” (La nave di Teseo, 2023). Egiziano, classe 1991, nato a Mansura in una famiglia copta, studente a Bologna, per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media è stato detenuto in Egitto per venti mesi, dal 7 febbraio 2020 all’8 dicembre 2021. Incalzato dal giornalista Rai Andrea Oskari Rossini e interrogato da un pubblico molto attento e partecipe, l’attivista ha raccontato la difficile esperienza dell’arresto e della detenzione, ma anche la volontà di contribuire a un cambiamento sia per il suo Paese che per la comunità internazionale.

“Il ragazzo italiano”

Zaki lo racconta chiaramente: essere chiamato in carcere “the Italian guy” gli ha salvato la vita, perché gli ha permesso di rendersi conto che c’era attenzione mediatica sul suo caso. Spiega: “Gli italiani non volevano che un’altra persona scomparisse nelle prigioni egiziane: Giulio Regeni è il motivo per cui io sono stato trattato diversamente. Siamo vittime dello stesso regime, e anche per questo mi auguro che la famiglia possa avere la verità che cerca. Io sono fortunato, perché ci sono altri 40 mila prigionieri politici in Egitto e pochi di loro hanno la fortuna di poter contare sul calore di un popolo, come quello italiano, che ha lottato per la loro libertà. La cosa più bella per loro è sapere di non essere dimenticati, che c’è qualcuno che ancora li pensa”. A proposito di politica estera, Zaki ritiene che la tregua tra Israele e Hamas serva a fermare il genocidio, ma non crede che potrà continuare a lungo, viste le ultime dichiarazioni di Trump e Netanyahu; non è molto ottimista rispetto al nuovo presidente siriano Mohammed al-Bashir e parla con gravità di “diritto internazionale violato nel giro di una sola settimana”, con Netanyahu e Almasri, entrambi considerati criminali di guerra ed entrambi lasciati a piede libero (il primo ha attraversato il globo ed è stato ospite negli Stati Uniti e l’altro è stato rilasciato dal Governo italiano).

Cosa ne pensi del fatto che l’Egitto, per alcuni Paesi (come l’Italia), sia considerato un Paese sicuro? Considerando, poi, ciò che ne deriva in termini di politiche migratorie.

È una domanda complicata. Di certo il fatto che l’Egitto, dalla rivoluzione del 2011, incarceri molti oppositori politici ha indotto diverse Nazioni ad avviare una campagna di propaganda e a considerarlo un Paese non sicuro. Però forse prima del 7 ottobre 2023 avrei dato una risposta diversa, perché la guerra in Palestina mi ha portato a riconsiderare quali siano gli “standard” per definire un Paese sicuro. Per me, che sono egiziano, l’Egitto non è sicuro, perché arresta molte persone, ma considereresti gli Stati Uniti un Paese sicuro adesso? Hanno eletto Trump, stanno supportando un genocidio... Qual è lo standard? Per me è quello della difesa dei diritti umani e, quindi, ci sono molti Paesi non sicuri.

Quali sono i tuoi sogni per l’Egitto?

Voglio un Egitto democratico, che rispetta i diritti umani, che si prende cura delle persone che hanno fame e dei poveri, voglio che il popolo egiziano sappia riconoscere il valore dell’umano, perché in una dittatura è facile dimenticarlo. Per questo obiettivo è necessaria la collaborazione di tutte le istituzioni, perché nessuna persona singola può farlo.

Di cosa ti stai occupando adesso?

Vivo a Bologna e sto svolgendo il dottorato di ricerca. Mi sto occupando della guerra in Palestina, analizzando tutto quello che è stato scritto da sottoporre al fact checking. È evidente che molti media stranieri hanno dei bias, pregiudizi, nei confronti dei palestinesi, pensano siano terroristi di Hamas. L’uso delle parole è significativo, basti pensare al fatto che non si sia usato il termine “pulizia etnica”. I media sono molto efficaci, perché non tutte le persone sono capaci di leggere in modo attento le notizie, e alcuni giornali fanno palesemente propaganda.

Per esempio?

Per esempio, hai mai letto da qualche parte che Israele ha bombardato le chiese della Palestina, di proposito? Quando i cristiani hanno perso le loro case e si sono rifugiati nelle chiese, i cecchini li hanno presi di mira. In Egitto ho fatto un podcast con il racconto di un cristiano che per un anno si è rifugiato in una chiesa palestinese: la sua famiglia è tutta morta. Questo non lo troverai sulla maggior parte dei media, perché non vogliono mostrarlo. Ci sono anche nazioni che si prendono la responsabilità di raccontarlo, ad esempio il Sudafrica, l’Irlanda, il Brasile, la Spagna... e lo fanno perché credono nei diritti umani.

Incontrerai 400 studenti del Planck. Che cosa ti spinge a portare il tuo libro nelle scuole?

Ho scritto il libro proprio per dare un contributo e rendere le nuove generazioni consapevoli dei diritti umani e voglio incontrarle anche per parlare di minoranze, di cyberbullismo, di stereotipi di genere. È una promessa che mi sono fatto in carcere. E questo perché le persone giovani sono molto sveglie, fanno domande molto più sofisticate, ad esempio sullo stato psicologico delle persone imprigionate. Sono contento di parlare con i ragazzi, perché credo che il cambiamento possa avvenire nei giovani più che in qualsiasi altra persona.

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