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Armenia: la tragedia di un popolo ricordata a Treviso

Numerosi eventi sono stati dedicati all’Armenia la scorsa settimana ad un secolo dal genocidio “dimenticato”

28/10/2015

Memorie che riemergono da un passato lontano, negato per più di un secolo. Sofferte. In debito con la storia. Con quella cosiddetta “ufficiale” almeno, che, vittima delle spire di un tanto assurdo, quanto patetico negazionismo, ha cercato di soffocare l’immane tragedia di un popolo e di una civiltà. Del “Grande male”, del “Metz Yghérn”, in armeno, non si doveva, non si poteva parlare... Lo proibiva il becero progetto di chi l’aveva pensato e poi drammaticamente messo in atto. Ma destinato a fallire: l’identità di un popolo, di una grande cultura, di una superba civiltà, non possono essere di colpo sommerse.
Memorie familiari. Toccanti. Memorie che diventano collettive. Che ci appartengono e ci coinvolgono. Venerdì 23, nell’elegante auditorium di Santa Caterina, aleggiava nitida, silenziosa eppur percepibile, dolcissima eppure nutrita di tristezza, una tenue elegia, modulata dal suono del duduk, che si coniugava felicemente con gli splendidi fotogrammi di Lino Bianchin e i testi di Gianni Tosello per raccontare l’Armenia, dal nome dolce come le sue albicocche, ricca di una storia millenaria, di una cultura che ha cullato per secoli popoli e intere civiltà.
Nell’ambito del centenario del genocidio armeno, con “Armenia amica. Storia e cultura del popolo armeno”, la Fondazione Feder Piazza, ha regalato alla città la pagina di un doloroso frammento nell’acciottolato scorrere del tempo, la quale ha ulteriormente arricchito il già nutrito carnet di appuntamenti previsti per promuovere la conoscenza di un popolo che come i piccoli popoli sono il sale della terra.
“Storia armena. Genocidio negato”, è stato un convegno di forte impatto storico ed emotivo, qualificato per la presenza di relatori d’eccezione, come il prof. Baykar Sivazliyan, docente di lingua armena presso l’Università degli studi di Milano, attuale presidente del Consiglio dell’Unione Armeni d’Italia e il dott. Vartan  Giacomelli, sostituto procuratore, presidente della Comunità Armena di Padova.   
Con evidente, commossa emozione, prima Giacomelli e quindi Sivazliyan, hanno ripercorso la vicenda armena e  la forte identità di una cultura - “della Croce e del Libro”, ha ricordato Giacomelli - che fanno dell’Armenia una terra senza eguali. Che sopravvive, nonostante una persecuzione decisa dalla logica del “Pantaturchismo” e dalla conseguente teorizzazione del genocidio all’alba del XX secolo, ma che scopre la sua genesi già nei massacri  “hamidiani” voluti dal sanguinario sultano Abdukl Hamid II sul finire dell’Ottocento.
L’obbiettivo, come accade nei regimi fortemente autoritari e nazionalisti, era la  ricerca di una legittimazione  politica che, per poter essere attuata, richiedeva la costruzione di una narrazione ufficiale della storia del paese tutta imperniata sull’esaltazione della maggioranza turca musulmana e sulla cancellazione delle altre etnie e appartenenze religiose presenti su territorio nazionale. Da qui la deportazione del popolo armeno, che già dal VII secolo a.C. risiede nell’Anatolia, verso i deserti della Siria e della Mesopotamia. Da qui l’“indispensabile” sterminio del “nemico interno”, al soldo della Russia nel primo conflitto mondiale. Da qui le marce della morte, le lunghe carovane di uomini e donne, giovani e vecchi strappati dalla loro terra, privati della stessa dignità di esseri razionali.    
Con lucida sofferenza, Giacomelli ha rivisitato questo tragico passato anche attraverso il ricordo dolce dei nonni e di un loro diario che continua a sfogliare con tenerezza e di molti familiari che hanno conosciuto il lungo, doloroso peregrinare nel deserto, che hanno visto l’Eufrate, rosso del sangue di tanti morti, prima di giungere, almeno loro - fortunati nella drammatica roulette della morte -, a Costantinopoli e poi in Italia.
Storie e non semplice banale epopea. Storie familiari, che diventano collettive. A sua volta, anche Sivazliyan ha ripercorso il filo storico che ha annodato il racconto del “fratello” Artan. Anche lui con lo stesso tragico destino. E’ nato in Turkia, Sivazliyan, ma del genocidio ne ha avuto conoscenza soltanto in Italia: “A casa mia su certe cose, sentivo calare un improvviso silenzio, soprattutto da parte dei miei nonni. Il primo anno che sono tornato a casa da Venezia, quando mia nonna si è accorta che ormai sapevo tutto, tra tante lacrime mi ha raccontato la storia della nostra famiglia. Prima aveva taciuto, come volesse preservare la mia infanzia e i miei anni giovanili”.
Oggi, a cent’anni da quella tragedia, dopo un secolo di colpevole negazionismo, Sivazliyan nutre la speranza che venga finalmente riscritta una nuova pagina di storia, ma questa volta redatta con l’inchiostro della  verità. La speranza si chiama papa Francesco. Parlare, come ha fatto lui, di genocidio armeno e definirlo come  il primo del XX secolo è,  per Sivazliyan, un atto di coraggio e di giustizia: “Dopo 100 anni, le sue parole sono una degna sepoltura per i nostri martiri”. La rassegna “Armenia amica” si è conclusa domenica con una messa celebrata in rito armeno nella Cattedrale di Treviso.

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