martedì, 17 settembre 2024
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Speciale laici: Tempo di reale corresponsabilità

Oggi, nel contesto di una Chiesa sinodale, la piramide si è rovesciata, per usare il linguaggio di Francesco, ma i problemi rimangono. Manca il respiro di una chiesa che sappia parlare agli uomini e alle donne di oggi. La posta in gioco è alta. Serve un ascolto leale, ma non solo

Il processo di riforma della Chiesa in vista della sua trasformazione missionaria, annunciato da papa Francesco nel 2013 con l’esortazione Evangelii gaudium, trova indubbiamente un’opportunità di concreto impulso nel Cammino sinodale della Chiesa italiana. Sembra quasi che per far uscire la Chiesa dalla propria autoreferenzialità serva davvero il contributo di tutti, a partire dai laici. Il progetto di una Chiesa sinodale, che si propone alla società civile come modello di partecipazione, solidarietà e trasparenza, è a dir poco molto ambizioso, vista la complessità di un tessuto sociale e culturale in cui l’esperienza della fede ecclesiale si alimenta tendenzialmente nella prassi liturgica e sacramentale di una minoranza delle persone. Una minima conoscenza della storia recente, grosso modo dal Concilio Vaticano II in poi, invita a tenere i piedi per terra, superando l’enfasi retorica che si è imposta sul tema. La complessità e la delicatezza dell’argomento suggeriscono di partire anzitutto da qualche considerazione storica, almeno per fugare l’equivoco della riedizione di una qualsiasi “teologia del laicato”, debole come tutte le teologie al genitivo.

Un lungo cammino
Se prima del Vaticano II nella Chiesa, intesa come societas perfecta, i laici erano per definizione canonica i “non chierici”, che al massimo potevano collaborare a diffondere la “dottrina cristiana”, come auspicava papa Pio X con l’enciclica “Acerbo Nimis” del 1905, la costituzione dogmatica Lumen gentium riabilita alla coscienza ecclesiale il senso della fede (sensus fidei) proprio di tutti i credenti, in virtù dell’unzione dello Spirito Santo ricevuta nel Battesimo. L’insieme dei fedeli “non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà peculiare mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il Popolo, quando «dai Vescovi fino agli ultimi Fedeli laici», esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di morale” (Lumen gentium, n. 12). Nel clima di generale apertura, il recupero dell’espressione agostiniana “fino agli ultimi fedeli laici” non stonava, sebbene tradisse, a ben vedere, al di là delle buone intenzioni dei Padri, una concezione ancora verticistica (oggi si direbbe top/down) della Chiesa, per cui l’espressione “popolo di Dio” non era davvero inclusiva di tutti, ma veniva riferita di fatto ancora ai fedeli laici, chiamati all’adesione indefettibile alla fede, all’obbedienza e all’applicazione nella vita degli orientamenti formulati da coloro che nella Chiesa esercitano l’autorità.

Ultima chiamata?
Oggi, nel contesto di una Chiesa sinodale, la piramide si è rovesciata, per usare il linguaggio di Francesco, ma i problemi rimangono. Questo perché manca il respiro di una Chiesa che sappia parlare agli uomini e alle donne di oggi che non sono più disponibili ad accettare linguaggi, modalità comunicative e forme rituali che sono lontani anni dalla loro esperienza di vita sociale, lavorativa, affettiva. Le ricerche sui giovani, in particolare, evidenziano come in questi anni sia cresciuta la distanza tra le forme tradizionali dell’essere Chiesa e la vita nella sua precarietà e incertezza. Con l’invito ad avviare un processo sinodale di riforma, papa Francesco sembra aver percepito che il tempo si è fatto breve e vuole accelerare nella ricerca di nuove forme istituzionali della partecipazione dei laici alla missione evangelizzatrice della Chiesa. L’istituzione del ministero del catechista è un segnale in questa direzione, mentre sul versante della testimonianza nel mondo si possono fare ulteriori passi. Perché si realizzi una felice articolazione tra le diverse forme di responsabilità sono necessari un ascolto reale e una formazione adeguata. Ma su questi due punti c’è molto da lavorare.

Non più marginalizzati
Il documento della Commissione teologica internazionale, dal titolo “La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa”, traccia chiaramente la direzione: “La grande sfida per la conversione pastorale che ne consegue per la vita della Chiesa oggi è intensificare la mutua collaborazione di tutti nella testimonianza evangelizzatrice a partire dai doni e dai ruoli di ciascuno, senza clericalizzare i laici e senza secolarizzare i chierici, evitando in ogni caso la tentazione di «un eccessivo clericalismo che mantiene i fedeli laici al margine delle decisioni” (n. 104). E’ proprio il clericalismo, definito senza mezze misura da papa Francesco come “la peste della Chiesa”, il subdolo nemico di una reale sinodalità. Evocando la marginalità dei laici nelle decisioni che contano, di fatto papa Francesco pone la questione della gestione del potere nella Chiesa, canonicamente formulato come il “servizio dell’autorità”. Il documento preparatorio del Cammino sinodale della Chiesa italiana, al numero 106, ricorre al termine “circolarità”: “Occorre attivare nella Chiesa particolare e a tutti i livelli la circolarità tra il ministero dei Pastori, la partecipazione e corresponsabilità dei laici, gli impulsi provenienti dai doni carismatici secondo la circolarità dinamica tra «uno», «alcuni» e «tutti»”. La formula, in perfetto “ecclesialese”, cerca di tenere insieme l’interezza del popolo di Dio, ma rischia di suonare ancora una volta astratta, finché non si chiariscono le condizioni effettive di quella circolarità.

Lealtà nell’ascolto
La posta in gioco del cammino sinodale della Chiesa italiana è il riconoscimento di una reale corresponsabilità dei laici nell’annuncio del Vangelo a partire dalla loro esperienza di vita. Ogni considerazione che non faccia i conti con le conseguenze che derivano da un esercizio sinodale del servizio dell’autorità appare superata, pena continuare a ritenere i laici “invisibili e irrilevanti”, come li aveva coraggiosamente definiti Paola Bignardi. La strategia non può essere solo quella dell’allargamento, che coinvolge tutti lasciando poi le decisioni a pochi. La sfida è cercare delle pratiche ecclesiali che rispettino i confini tra i diversi soggetti del popolo di Dio, ma che soprattutto si aprano alla conoscenza della vita reale delle persone. Questa esplorazione va fatta insieme, ma senza ingombrare il campo con le proprie identità ecclesiali da esibire o difendere. Se si decide di ascoltare, allora bisogna tener conto di quell’ascolto, se si vuole essere seri. Altrimenti le persone tagliano i ponti e se ne vanno deluse. “Verso chi la nostra Chiesa particolare è «in debito di ascolto»? Come vengono ascoltati i laici, in particolare giovani e donne? Che spazio ha la voce delle minoranze, degli scartati e degli esclusi? Riusciamo a identificare pregiudizi e stereotipi che ostacolano il nostro ascolto?”. Queste sono alcune delle domande che il Documento preparatorio propone per la cosiddetta “fase narrativa” del cammino sinodale. Essa prevede un ascolto a tutto campo (concentrato però in pochi mesi). Forse a queste domande ne andrebbero aggiunte un altro paio: che cosa intendiamo fare di ciò che le persone interpellate diranno? E’ vero che la sinodalità è ciò che Dio chiede alla Chiesa del terzo millennio, come ha detto papa Francesco, ma le persone che saranno coinvolte nell’ascolto nei prossimi mesi si attendono dalla Chiesa dei cambiamenti concreti in questo tempo e non nel prossimo millennio.

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