venerdì, 18 ottobre 2024
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Le nostre armi contro il virus

Roberto Rigoli, primario di Microbiologia al Ca’ Foncello, è uno degli esperti della Regione. Qui spiega come proseguirà la ricerca delle persone contagiate, fra tamponi e test sierologici. In attesa del vaccino.

“Per uscire definitivamente dall’epidemia la soluzione è il vaccino. Sappiamo che è un traguardo non vicino e quindi nel frattempo dobbiamo convivere con il virus. Per riprendere le attività, dobbiamo pensare a una convivenza responsabile, ovvero le distanze interpersonali, la mascherina, il controllo della temperatura corporea, l’isolamento in casa non appena la nostra temperatura supera i 37,5 gradi o ci sono dei sintomi. Questa sarà la nuova normalità”.

Il dottor Roberto Rigoli è il primario del reparto di Microbiologia dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso. Rigoli è ex allievo dell’Istituto Pio X e nel 2009 dall’istituto trevigiano ha ricevuto il premio “La Fonte”, per aver saputo valorizzare le risorse umane nelle sue attività di ricerca e di organizzazione. Rigoli fin dall’inizio dell’epidemia, coordina le attività delle Microbiologie della Regione Veneto durante l’emergenza Covid. “Quando la mia amica e collega Maria Capobianchi, direttrice del laboratorio di Virologia dello Spallanzani, ha sequenziato il genoma del virus, confermando che la gran parte del codice genetico apparteneva al virus della «Sars», ho capito che era molto aggressivo. Andava trattato con la massima attenzione”.

Come vi siete mossi per individuare i positivi e circoscrivere l’infezione?

Abbiamo utilizzato tutte le armi a disposizione. Ovviamente il test principe è quello del tampone. In Veneto, nonostante il materiale fosse difficile da reperire, abbiamo cercato di farne fin da subito il numero maggiore possibile. Devo dire, diversamente da quanto indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità, che prevedeva i temponi, in un primo momento, solo a chi rientrava dalla Cina o aveva avuto contatto con chi proveniva da quel Paese. I primi casi li abbiamo identificati al di fuori dei protocolli indicati dall’Oms.

Oggi con quali criteri vi muovete?

Continueremo a gettare una grande rete. Utilizziamo anche i test sierologici rapidi, che non hanno una affidabilità assoluta. In maniera rapida, ci mostrano i positivi e possiamo fare subito la verifica con il tampone. Preferisco buttare una grande rete, anche se c’è qualche falso positivo, poi verifico con il  tampone. I test rapidi hanno dei limiti, gli anticorpi sono visibili dopo qualche giorno e non servono certo per rilasciare quella specie di patentino di immunità di cui oggi tanto si parla. L’esperienza clinica quotidiana ci aiuta, siamo in grado, a seconda della comparsa degli anticorpi, di stabilire se l’infezione è recente o è passato del tempo. Un tipo di questi anticorpi, detti IgM, sono prodotti all’inizio dell’infezione e si ritrovano nel sangue a partire, in media, da 4 o 5 giorni dopo la comparsa dei sintomi e tendono poi a scomparire nel giro di qualche settimana. Altri anticorpi, detti IgG, si ritrovano nel sangue a partire, in media, da una decina di giorni dopo la comparsa dei sintomi e restano per un certo tempo.

Utilizzate anche test basati sul prelievo del sangue?

Ecco, questi sono i più sicuri. Ci danno anche dati quantitativi sulla presenza degli anticorpi. Questi saranno i test che ci diranno se una persona è immunizzata. Sul mercato ci sono sempre più aziende che producono questi test e anche lo spazio finestra di 10 o 11 giorni dall’infezione, grazie all’aumento della sensibilità dei test, si sta riducendo.

Dunque, per il futuro, si aprono delle speranze?

Attenzione, però: i comportamenti che terremo restano fondamentali. Per i più anziani, trascurare le indicazioni di prevenzione li espone a rischi notevoli. Per i giovani ci deve essere responsabilità, perché dobbiamo abbassare la circolazione del virus e questo dipende dai comportamenti di tutti. Ci aiuta anche il virus, che dopo aver fatto il salto di specie, perde pezzi di codice genetico della «Sars» e acquisisce codici di altri virus meno aggressivi, anche l’h1n1 era molto aggressivo all’inizio, oggi è una semplice influenza. C’è poi la legge delle sopravvivenza e della selezione naturale, se sono un parassita e porto alla morte i miei ospiti, anch’io morirò.

Possiamo dire, semplificando, che hanno più possibilità di sopravvivere i virus meno aggressivi, che non distruggono l’ospite ma vi convivono?

Possiamo dire così. Anche questo è motivo di speranza. Però, mi lasci dire, la speranza siamo noi stessi. Voglio ringraziare i cittadini veneti, in particolare i miei concittadini trevigiani, che sono rimasti a casa e hanno rispettato le regole. Sono stati loro i veri “medici” che hanno limitato questa infezione con il loro comportamento. Una grande speranza è rappresentata anche dai sanitari che in questi due mesi hanno stretto relazioni di aiuto e solidarietà, vorrei dire di grande amicizia, pur mantenendo le distanze fisiche, sono stati una forza compatta contro il virus.

Lei è una persona molto positiva, alla ricerca sempre di elementi di speranza. Tuttavia qualcosa non è andata per il verso giusto in questa pandemia. Non ha nessuno da rimproverare?

Visto che me lo chiede, devo dire che l’Oms doveva allertarci. Doveva dire come stavano le cose, non ci sono arrivati allarmi. Quando abbiamo avuto il caso di Vò non avevamo notizie precise, gli organismi tecnici internazionali ci hanno dato protocolli che non ci facevano individuare alcuni casi: una rete bucata.

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