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Caritas di Agrigento: chiesa che accoglie

Il direttore della Caritas locale racconta l’incontro con i migranti che sbarcano sulle coste siciliane. “Chiediamoci, a sud come a nord, che cosa vuol farci capire il Signore con questa esperienza di incontro con i profughi”

08/05/2015

A Lampedusa, provincia e diocesi di Agrigento, non è affatto spenta l’eco dell’ultima tragedia che ha visto inghiottiti dal mare quasi 700 migranti nella notte del 18 aprile scorso. Ma gli sbarchi continuano, quasi quotidianamente, e tra le realtà in prima linea per l’accoglienza c’è la Caritas diocesana diretta da Valerio Landri, che in questa intervista ci aiuta a capire qual è la situazione e come lavorano operatori e volontari.
Chi vive in Sicilia, soprattutto sulle coste, si trova ogni giorno, faccia a faccia con donne e uomini veri e con storie dolorose. Che cosa vuol dire trovarsi davanti ad un barcone pieno di gente disperata?
Agrigento è terra di frontiera: Lampedusa, Porto Empedocle, Siculiana sono ormai da anni luogo di approdo di migliaia di migranti. Gente in fuga da guerra, persecuzione, miseria, cercatori di speranza che chiedono di prendere parte a quel banchetto apparecchiato in Europa grazie ad una ricchezza costruita spesso sulle spalle dei loro Paesi. I volti pietrificati dall’acqua di mare, gli occhi rossi di salsedine, il sorriso incredulo di chi ha vinto il mare e la morte… sono la loro lettera di presentazione. E’ più facile parlare di “immigrati” come entità astratta, che riconoscere che quel fiume umano è costituito dalla somma di storie singole, uniche e irripetibili, da conoscere, accogliere e accompagnare per quel pezzo di strada che ci è dato di percorrere insieme. Con l’esperienza di questi anni, però, il sentimento che maggiormente alberga nel nostro cuore è quello dell’inadeguatezza. Li guardiamo negli occhi e sappiamo già che il loro viaggio non è affatto concluso, la loro fatica dovrà ancora fare i conti – per quanti resteranno in Italia - con anni di miseria tra le maglie di un sistema di accoglienza inadeguato e costruito per speculare sulla loro già difficile esperienza oppure con una vita di sfruttamento nelle nostre campagne, case o strade; per quanti riusciranno a raggiungere altri Stati europei – in barba al Regolamento di Dublino – ci sarà ancora un tratto di strada da percorrere, trafficanti da ripagare, mortificazioni da subire. Eppure loro, quelli che arrivano, sono già i più fortunati! Non fanno parte degli oltre ventimila che dormono in fondo al mare.
Come siete organizzati per l’accoglienza?
La Caritas è il volto della Chiesa che accoglie. In un sistema gestito tramite bandi, convenzioni, gare al ribasso, noi abbiamo scelto di continuare ad essere Chiesa libera e profetica. L’importante, per noi, è farci prossimi ai migranti in transito, rispondere ai bisogni non soddisfatti dalle Istituzioni, ma mantenendo la libertà di denunciare ciò che non condividiamo, dando voce a chi non ne ha. Su Lampedusa, ad esempio, la nostra azione è di prossimità agli ospiti del Cpsa, il Centro di primo soccorso e accoglienza governativo, che si rivolgono alla parrocchia in cerca di abiti, scarpe, coperte, orientamento o semplicemente preghiera. Un’attenzione particolare viene dedicata a bambini, donne e alle persone più fragili, traumatizzate dal viaggio e dalle esperienze vissute. Sulla terra ferma, invece, il nostro impegno è sul fronte dell’integrazione: la ludoteca multietnica, i corsi di italiano, il tea room, i laboratori interculturali, le preghiere interreligiose sono la nostra quotidianità.
Si riscontrano atteggiamenti razzisti?
Stiamo assistendo ad una guerra fra poveri. Anche qui iniziano ad emergere derive xenofobe prima impensabili. La crisi e la povertà crescente portano, a volte, ad una chiusura del cuore e all’accrescersi di paure e pregiudizi. Questo è il tempo in cui occorre ripartire dall’uomo – italiano o migrante che sia – mettendolo al centro delle scelte politiche nazionali e internazionali. Grazie a Dio, però, l’esperienza dell’accoglienza sta anche incentivando risorse di bene prima inespresse: tanti volontari, famiglie, imprenditori, associazioni hanno deciso di non voltarsi dall’altra parte e sono per noi una grande risorsa.
Vi sentite mai soli?
No, perché sappiamo di essere Chiesa. Tante Diocesi italiane e straniere ci sono state compagne di viaggio tramite donazioni, preghiere, campi di servizio. La rete Caritas è una grande famiglia con la quale condividere esperienze, difficoltà e risorse.
Ci racconta qualche storia che le è rimasta particolarmente impressa?
Quella di Omar, giovane tunisino arrivato nel 2011 e rimasto nascosto nelle campagne di Lampedusa per giorni, per paura. Venuto in paese si è rifugiato – lui musulmano – in chiesa, seguendo il consiglio datogli dalla sua anziana bambinaia cristiana. In chiesa ha trovato una famiglia lampedusana che lo ha preso con sé, lo ha curato, gli ha trovato un lavoro e poi orientato nelle scelte della vita. Adesso Omar vive a Roma, ha trovato la sua strada, ma sa che a Lampedusa ha una famiglia.
Noi tutti che viviamo lontani, che cosa possiamo fare per non farvi sentire soli?
Anche voi vivete l’esperienza dell’immigrazione. Sul vostro territorio vivono migliaia di migranti, gli stessi che noi vediamo arrivare sulle nostre coste. All’arrivo c’è un sistema di accoglienza – certamente perfettibile – che è strutturato; il cammino dell’integrazione, invece, va costruito giorno dopo giorno dalle comunità locali, nelle scuole, nelle parrocchie, nei centri sociali, nelle famiglie. La domanda che dovremmo farci oggi è: quale Buona Notizia vuole darci il Signore con questa esperienza? Cosa vuole farci capire? La risposta potrebbe portare ad una Chiesa rinnovata e più vicina al Vangelo, pur nelle sue umane contraddizioni. Accompagniamoci con la preghiera reciproca, perché quella delle migrazioni è una sfida che il Signore sta ponendo alla Chiesa tutta.

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