Questo tempo particolare, che ci vuole preparare nella duplice attesa del Natale del Signore e del suo...
STORIE DI SPERANZA 8: Sandwich sì, schiacciati no
Nella loro cucina il tempo dell’intervista diventa piacevolmente lento, mentre si alterna un sorriso o uno spazio di silenzio a qualche divertente battibecco. Rodolfo è appena tornato dopo essere stato a casa dell’anziana mamma, per aiutarla a coricarsi; Daniela ha portato la figlia da una amica per la serata e, mentre aspetta, sistema la cucina. La loro vita quotidiana è scandita dal lavoro, dagli impegni in famiglia, dall’accudimento dei genitori; ma tra uno spazio e l’altro riescono a dedicarsi anche alla cura di qualche interesse, di relazioni amicali significative. Caspita, ma come fanno? Come riescono a non restare schiacciati, districandosi tra figli adolescenti, grandi anziani di cui occuparsi, impegni professionali, vita di coppia e piccole passioni personali? Negli Stati Uniti la chiamano “generazione sandwich”: sono gli uomini e le donne che hanno più o meno 50 anni, crescono i propri ragazzi arrivati ormai alla soglia dei quindici anni o giù di lì e si occupano di genitori nel pieno di quella che oggi è definita la quarta età, ovvero over 75. Entrambi, dunque, alle prese con le fatiche provenienti, contemporaneamente, da più ruoli: sono madri e padri, donne e uomini, mogli e mariti, figlie e figli, lavoratrici e lavoratori in un momento in cui gli equilibri della vita sono messi a dura prova dall’adolescenza da un lato e dalla vecchiaia dall’altro.
L’amore non basta?
Rodolfo e Daniela sono sposati da 32 anni. Vivono a San Vito di Altivole, sin da giovani e da adulti fanno parte dell’Azione cattolica, sono sempre stati impegnati attivamente nella vita della parrocchia, in particolare con l’animazione liturgica e il coro. Dopo un cammino piuttosto lungo e molto travagliato - che ha messo alla prova la loro relazione, come capita a tante coppie (e per evitarlo hanno cominciato dei percorsi di formazione e approfondimento su di sé) - nel 2010 hanno adottato la loro figlia che, all’epoca, aveva 3 anni e una storia di abbandono e sofferenza alle spalle. Erano i “tempi d’oro” dell’adozione internazionale, a ogni cambio di calendario si contavano oltre 3.000 ingressi in Italia (oggi si sono stabilizzati nel post Covid a nemmeno 700).
“Abbiamo dedicato tanto tempo per costruire la nostra famiglia, e la relazione con nostra figlia - raccontano -. È stato ed è difficile, ma molto, molto autentico. Ci ha richiesto presenza, tanta pazienza, tantissima costanza e anche capacità di guardare oltre. Per sostenerci, abbiamo cominciato a partecipare a un gruppo di auto mutuo aiuto specifico sull’adozione, che tutt’oggi frequentiamo, e che è stato uno strumento importante per non sentirci soli, per confrontarci con gli altri, per aiutarci reciprocamente”.
E mentre Rodolfo e Daniela diventano, giorno, dopo giorno genitori, la figlia esce dall’infanzia ed entra in una travagliata adolescenza, quella in cui la ricerca della propria identità si confronta con i temi delle origini, delle ferite dell’abbandono, del senso di sé. “Abbiamo cercato sempre di tenere aperto il dialogo, di non smettere mai di comunicarle che abbiamo fiducia in lei e che siamo certi evolverà” proseguono mentre ricordano le fatiche e, ancora di più, le domande, la ricerca di risposte a problematiche crescenti, i percorsi d’aiuto. Perché i figli - tutti i figli - ti portano dove non sai di dover andare e ti chiedono di misurarti con temi che mai avresti davvero immaginato di frequentare. “E’ stato in quel momento che Prh (Personnalitè et relations humaine) è tornato importante nella nostra vita, come strumento personale e di coppia, di ricerca, di riflessione, di consapevolezza”.
Il bene da custodire
Poi, mentre i figli ti stanno riempiendo la vita, facendoti esplorare in profondità la preoccupazione, il dolore, la rabbia, ma anche le altezze della gioia, delle conquiste che credevi impensabili, i nonni invecchiano e arrivano nuovi carichi di impegno. “Già prima del Covid i nostri avevano cominciato a «declinare» - raccontano Rodolfo e Daniela -, per motivi contingenti diversi, ma tutti legati all’età. A un certo punto è diventata necessaria la nostra presenza quotidiana, divisa nel carico con i fratelli e le sorelle”. Genitori che fino a poco prima si occupavano dei nipoti, poi devono essere pazientemente accuditi, nonostante alcune volte possano anche “mandarti fuori di testa” con le loro manie, le loro sofferenze, la difficoltà di gestirli. Il tema dei caregiver non è nuovo nel nostro Paese. Secondo una recente ricerca della Fnp Veneto, diffusa nei mesi scorsi, il 55,9% (degli intervistati) ritiene pesante o molto pesante prendersi cura del proprio familiare, con il rischio di ammalarsi a sua volta: il 46,2% dichiara peggioramenti nella propria salute fisica, e il 53,8% nella propria salute mentale. E quasi la metà, il 46,6%, ha dovuto lasciare il lavoro o lo studio per fare il caregiver.
“Noi, abbiamo capito che dovevamo essere solidi nei cambiamenti, resilienti negli imprevisti. Non è facile”, forse non lo si riesce nemmeno a fare, se non ci si è allenati prima alla consapevolezza, alla cura della propria persona, e, dunque, alla pazienza, ad accogliere un tempo prolungato e incerto di difficoltà. “Tutte le dinamiche di una famiglia esplodono in quel momento, perché ciascuno dei fratelli e delle sorelle chiamati in causa nell’accudimento ha a sua volta la propria storia, fatta di altrettante fatiche e dolori”.
Si corre tanto, si corre sempre
Si corre tanto, si corre sempre: al lavoro, a seguire la figlia, a cambiare, preparare la cena e mettere a letto i genitori. A volte, la stanchezza accompagna la quotidianità e basta poco per “accendersi” in screzi e incomprensioni, con il rischio di logorare se stessi e le relazioni familiari. Come si fa a non implodere? “Arriva il momento in cui, liberandosi di tante sovrastrutture, si va al cuore delle cose, all’essenziale, e si comincia ad accettare la realtà per quella che è”, riflettono i due. Sostenuti da una fede matura, da una sete di ricerca e di verità, aperti al confronto con gli altri e dentro la vita della comunità, si può diventare segno di speranza.
Speranza, dono e stupore
Più si aderisce in profondità a se stessi, più si diventa liberi, e, dunque, capaci di accogliere l’altro, specie quando incrina le certezze su cui si è costruita la vita. “Per me - dice Daniela che tra l’altro è reduce dalla realizzazione del suo secondo spettacolo musicale di successo «L’incanto dell’attesa», costruito e messo in scena proprio nel periodo dell’Avvento -, la speranza è essere sempre più in relazione, è la mia capacità di diventare un dono per gli altri, con i miei talenti e nelle mie responsabilità. A muovermi è l’amore, la passione e il coraggio di vivere la vita con verità”. “Per me, invece, è riuscire a mantenere uno sguardo buono sulla vita sulle persone e sulle situazioni, senza lasciarmi ingabbiare dalla pesantezza e dai luoghi comuni”, aggiunge Rodolfo.
Significa, per tradurre le parole con cui Italo Calvino conclude “Le città invisibili”: saper cercare e riconoscere chi e cosa, in mezzo alle fatiche e alle nostre povertà, è stupore e bellezza, e farla durare e dargli spazio.