Questo tempo particolare, che ci vuole preparare nella duplice attesa del Natale del Signore e del suo...
XXXIII domenica del Tempo ordinario: la parabola dei talenti affidati a ogni battezzata e battezzato, e che chiedono di essere riconosciuti
Il brano del Vangelo di questa domenica riporta la penultima parabola che Gesù racconta ai suoi prima che inizi il racconto della sua passione, morte, risurrezione.
Risposte diverse ad una fiducia donata. Un padrone affida «i suoi beni» a tre servi, prima di partire per una lunga assenza. Sono beni «suoi», che consegna secondo una precisa valutazione delle «capacità di ciascuno» dei servi, che ben conosce. La somma affidata è molto grande: un solo talento, a quel tempo, corrispondeva a circa 6.000 denari, pari ad almeno 15 anni di salario di un bracciante che lavorava a giornata. Il che indica una fiducia davvero grande da parte del padrone. I primi due servi «impiegano» il denaro ricevuto guadagnandone altrettanto. Il padrone, al suo ritorno, li loda e li invita entrambi a «entrare nella sua stessa gioia». Il terzo, destinatario di una somma minore degli altri, ma comunque molto grande, ha «paura» del padrone che considera «uomo duro» ed esigente, che pretende di raccogliere guadagni sul lavoro altrui, e si limita a riconsegnargli la somma che gli era stata affidata. La risposta del padrone riprende la valutazione del servo e mette in questione il suo operato, letteralmente: «Sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso? Ma allora perché non hai affidato...». Gli contesta la paura di affrontare il rischio e il rifiutarsi di usare le proprie capacità: “Come mai, se secondo te sono così esigente, non hai usato il tuo giudizio per affidare il mio denaro ai banchieri - minimizzando i rischi ma assicurando un qualche risultato, visto la fiducia che avevo accordato anche a te?”. Il punto critico del racconto è quindi l’atteggiamento del terzo servo, che non si fida del credito che il padrone gli aveva riconosciuto consegnandogli un intero talento. Il gesto di restituzione del denaro e le parole che lo precedono e lo seguono configurano un netto rifiuto di lasciarsi coinvolgere in ciò che quella fiducia intendeva suscitare in lui. Negli altri due servi si genera una risposta che “mette a frutto” tale fiducia, qui la paura deforma il volto stesso del padrone. La relazione con lui è relazione che distrugge la fiducia e spinge a rifugiarsi nel “sotterrare” il bene affidato.
Una parabola da leggere secondo l’esperienza di vita di Gesù. Letta al di fuori del contesto dell’annuncio e della vita di Gesù, la parabola può essere (ed è stata) intesa come giustificazione di ogni guadagno, lecito o illecito, come benedizione su ogni “finanza arrischiata”, su capitali ingenti investiti senza scrupolo, sullo sfruttamento del lavoro altrui... Ma la comunità dei discepoli ben conosce le scelte di vita di chi la raccontava, di Gesù, e sa smascherare a sua volta l’ipocrisia del terzo servo che si nasconde dietro un giudizio aggressivo nei confronti di chi ha avuto fiducia in lui. A tutti, e con attenzione alle capacità di ciascuno, senza pretendere quanto ognuno non può dare, è affidata la vita e le risorse che in una vita si possono ritrovare: capacità personali, relazioni, beni, occasioni... Ciò che è chiesto, più che un grande guadagno o un grande successo, è di rispondere alla fiducia con altrettanta responsabilità e creatività. Perché da questo dipende il poter portare a compimento la vita stessa, cioè essere fatti entrare nella «gioia» stessa di Dio.
E per noi, oggi? Innanzitutto, sono chiamato a scoprire ogni giorno che il Padre si fida di me, mi offre quanto di buono c’è nella mia vita, semi di bene che mi meravigliano per la loro inattesa ricchezza, ma pure una fiducia che mi spiazza per la libertà di come far fruttificare questi semi. Più che grandi risultati, si attende la fedeltà a quella fiducia donata, mi chiede di credere in un bene presente, anche quando non riesco a scorgerlo nella vita e nella storia, nei volti che incontro.
Ma avvertiamo che, in Gesù, Dio non ci lascia da soli in questa impresa che è l’impresa del nostro vivere: ci dona una comunità, che ci aiuta a scoprire i doni a ciascuno affidati a beneficio di tutti, ci dona relazioni con altri con i quali reciprocamente possiamo aiutarci a far emergere i “talenti” diversi di ciascuno, di ciascuna, e far sì che ciascuna, che ciascuno possa impiegarli al meglio per il bene di tutti, nella Chiesa e nel mondo.
E ritorna il senso di un cammino sinodale, in cui tutti i “talenti” consegnati a ogni battezzata e battezzato chiedono di essere riconosciuti. Anzi, uno dei “talenti” della comunità dovrebbe essere proprio quello di “valorizzare i talenti” di tutti. Insieme al “talento” fondamentale che alla Chiesa è affidato: il Regno di Dio, che sempre la supera, un Regno di cui favorire la crescita grazie al dono dello Spirito Santo, camminando dietro a Gesù morto e risorto.
Quale volto di Dio. Un’ultima considerazione: più si conosce Gesù, più si scopre un volto di Dio non come “padrone duro ed esigente”, ma volto di Padre che ad ogni suo figlio e figlia affida il dono della vita e del bene che ciascuno e ciascuna può coltivare, far fruttificare e condividere per la gioia di tutta la comunità umana. E allora, forse, la «gioia» a cui già ora siamo invitati è l’entrare nella famiglia stessa di Dio, ammessi alla stessa qualità di vita del Figlio, da servi ad amici, capaci a nostra volta di donare vita, fin dentro le situazioni più dure e faticose, e di ritrovarla risorta.