venerdì, 03 maggio 2024
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V Domenica di Pasqua: La vite, i tralci e la vita

L’impegno di Dio per coltivarla e custodirla, permette alla pianta di portare frutto

Dopo il pastore e le pecore di domenica scorsa, la seconda immagine relativa alla cura e all’amore per noi da parte di Gesù e del Padre è quella della vite e dei tralci.

“Io sono la vite”

Nell’immagine della vite si addensano sia una serie di azioni concrete ben note agli ascoltatori sia echi profondi del suo uso biblico. La vite richiede cure attente per portare frutto di gioia, cure nelle quali Dio si è impegnato (Sal 80,9-12), ma alle quali la vite di Israele non sempre ha risposto con fedeltà (Is 5). Il vangelo secondo Giovanni sceglie questa immagine come ultimo simbolo a cui lega le parole impegnative: “Io sono”, che indicano l’identità di Gesù. Qui tale identità esprime non solo il suo necessario rapporto con il Padre, ma anche l’altrettanto necessaria relazione con i suoi. Gesù è Dio - salva in quanto vite che Dio ha piantato e di cui egli ha cura perché porti frutto. Ma è Dio - salva anche perché si mette in relazione vitale con coloro che credono in lui, relazione necessaria al portare frutto non solo dei tralci, ma della vite stessa. E’ un tutto organico, che certamente riuscirà a portare frutti abbondanti perché Dio stesso si impegna a “coltivarla e custodirla” con passione e fedeltà, affinché la vite intera possa esprimere tutte le sue capacità di frutti di gioia (Gv 15,11; Sal 104,15). E’ un’affermazione davvero profonda e grande, l’immagine viva di questa vite rigogliosa con cui il Vangelo vuole comunicarci l’impegno assoluto e senza pentimento di Dio con noi.

Una vite che ha bisogno di cura

E’ il suo venire a renderci finalmente capaci di compiere la promessa che ci abita: generare il frutto di vita di cui ogni uomo e donna ha nostalgia nel suo cuore, anche se tale nostalgia talvolta si manifesta in un desiderare avido e cieco, questo suo impegnarsi assoluto con noi nel farsi vite che sopporta anche tagli di potatura purché ognuno e ognuna possano avere la possibilità di generare ricchezza di grappoli esuberanti, che ognuna e ognuno possano far nascere vita che vale la pena di essere vissuta e goduta, da ora e da qui.

Non è un’immagine idealizzata: Gesù ha ben presente le necessità dei tralci: non soltanto rimanere uniti alla vite, ma anche venir potati perché possano portare “più frutto”, ovvero essere ancor più se stessi. Ma conosce anche l’opera “competente” del Padre che “sa fare il suo mestiere” di vignaiolo capace e appassionato: è la cura che il Figlio stesso sperimenta su di sé fino al compimento del suo cammino sulla terra (Eb 5,8-9), e sa che è intervento efficace per liberare tutta la capacità di vita presente fin nell’ultimo tralcio, il più piccolo e “lontano”... E conosce, tuttavia, pure il rischio che dei tralci possano non portare frutto perché si seccano e non rimangono più vitalmente uniti alla vite. L’immagine del fuoco è richiamo a giudizio di fallimento a cui si autocondanna chi non accetta la linfa della vite, chi non si fida / non si affida alla Parola che gli viene donata attraverso la vita, le scelte, gli incontri, le opere, le parole di Gesù.

Ciò che è necessario, infatti, al tralcio è di “rimanere” sulla vite: lasciarsi nutrire da ciò che il ceppo della vite gli dona, la sua stessa vita. Fuori dalla metafora, al discepolo è chiesto di accogliere la vita del Crocifisso Risorto che lo Spirito Santo genera in lei, in lui. Il paziente ascolto della Parola a partire dalle Scritture, l’incontro con il Signore Gesù nella storia e nei percorsi della vita quotidiana, il sostegno ricevuto dal mangiare e bere di lui nel pane e nel vino condivisi nell’eucaristia, la misericordia continuamente accolta dal Padre e lasciata lievitare nelle relazioni con gli altri e il creato intero... tutto questo è quel tenace “rimanere” che nutre noi e genera frutti di vita da condividere con gli altri.

La preghiera e l’impegno per il Regno

Nella finale del brano, due sottolineature. La prima, circa la preghiera come occasione in cui la relazione di profonda unità con ciò che Dio desidera, ovvero pienezza di vita per tutti, diventa libertà di chiedere con fiducia, e possibilità di riconoscere il dono che tale domanda riceve. Sarà dono di vita, anche se magari non avrà la forma che avevamo chiesto. Nella seconda, scopriamo che la “gloria”, cioè la manifestazione credibile e autentica della presenza del Padre, è una comunità di fratelli e sorelle che “porta frutto” nella storia dell’umanità. Se allarghiamo l’ascolto al Vangelo secondo Marco, che in quest’anno liturgico ci è offerto come guida, tale “portare frutto” diventa collaborare alla crescita del Regno di Dio: una condizione in cui, dall’interno della storia e di ogni vita, possano germogliare dignità, rispetto, solidarietà, giustizia, pace, a rinnovare relazioni e società.

Sia la preghiera per la vita, e per la pace che la rende possibile, sia l’impegno per il Regno sono una chiamata urgente e necessaria nel “furioso disordine mondiale” che stiamo sperimentando in questi giorni, per non lasciare preda del male il creato nel quale Cristo Gesù continua a generare Pasqua di morte e risurrezione.

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