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Paese, l'esperienza in Kenya di Silvia Bresolin: "Volti indimenticabili"

La ventitreenne, laureata in infermieristica, dal 17 febbraio al 23 aprile scorso ha lasciato temporaneamente l’Advar per una nuova forte esperienza in Kenya, al Sant’Orsola Mission Hospital di Matiri, diretto dal medico del Cottolengo, fratel Beppe Gaido, dell’associazione “Aiutando nel mondo” che vi opera con un collega in una situazione di perenne emergenza.

01/06/2020

I giovani sono capaci di grandi ideali. Molti quelli che fanno scelte significative, nel volontariato e promozione umana. Esperienze forti anche se non da tutti comprese. Una scelta simile l’ha fatta anche Silvia Bresolin, capo scout Agesci nella parrocchia di Paese, “figlia d’arte” di genitori impegnati che recentemente hanno vissuto un periodo tra i profughi siriani.

La ventitreenne, laureata in infermieristica, dal 17 febbraio al 23 aprile scorso ha lasciato temporaneamente l’Advar per una nuova forte esperienza in Kenya, al Sant’Orsola Mission Hospital di Matiri, diretto dal medico del Cottolengo, fratel Beppe Gaido, dell’associazione “Aiutando nel mondo” che vi opera con un collega in una situazione di perenne emergenza.

In sostanza, due medici per 120 pazienti in una struttura sorta nella regione arida del Taraka, ma l’arrivo di Silvia è stato beneagurante dato che la pioggia ha subito rinverdito il paesaggio. “E’ stato un tempo ricco di incontri, di volti e di sguardi”, esordisce la giovane paesana. All’arrivo occorre innanzitutto confrontarsi con la barriera linguistica che però viene abbattuta dalla comunicazione con lo sguardo e il sorriso, quel sorriso dolce e umano che la giovane ha sperimentato tra gli ammalati della Casa dei Gelsi.

Certo, in Africa gli ospedali sonO ben diversi dai nostri, e forse per questo le emozioni e le attese si accentuano, magari per la nascita di un bimbo in un parto difficile o per le lacrime di Mary con un’infezione alla ferita chirugica dopo aver dato alla luce il piccolo Ann.

La cultura, le usanze sono molto diverse, ma non meno avvincenti. C’è una tale indigenza che i genitori si privano anche di quel poco, incuranti della propria salute, pur di mettere da parte qualcosa in caso di bisogno per i figli. Le partorienti più povere giungono all’ospedale dopo tre giorni di cammino magari per sentirsi dire che il bimbo è morto. Più fortunate quelle che possono pagarsi il trasporto in motocicletta. Situazioni che sollecitano dentro e alle quali non si riesce a rimanere indifferenti. Per fortuna che ci sono loro, i bambini con il viso scavato dalla fame, che però fanno a gara per salutarti con il loro perenne innocente sorriso. Sono loro che ti stringono il cuore e fanno tanta tenerezza, sono loro che ti danno la carica, ma interrogano la coscienza.

Purtroppo, a complicare le già precarie situazioni, è arrivato il Covid-19 a bloccare quel poco di lavoro a giornata su cui tanti contavano per dar da mangiare ai figli. Anche nel cuore del Continente nero il nemico invisibile non ha fatto eccezioni, ha bloccato quel poco di attività che c’era: turismo crollato, mercati chiusi, dispositivi sanitari introvabili, con la polizia che non lesina la violenza nei confronti di chi si sposta per necessità.

A Matiri, infatti, c’è un solo infermiere anestesista e un solo respiratore con bombola di ossigeno. Più che alla scienza medica qui ci si affida alla preghiera.

Silvia Bresolin è ritornata in patria non senza difficoltà per i voli bloccati. Tuttavia, dice, “a sera, nel chiuso della mia stanza quei volti riaffiorano, indelebili. Quando chiudo le palpebre, li rivedo tutti e mi chiedo se quel bimbo denutrito sia ancora vivo, se quella mamma avrà di che sfamare il suo piccolo, se quell’uomo colto dall’inedia sul ciglio della strada abbia ancora un filo di speranza…”. Domande che ognuno dovrebbe porsi.

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