La morte ha la forza di farci riconsiderare le priorità della vita e, forse, di dare loro un po’ di ordine....
XXXI Domenica del Tempo ordinario: Il primo comandamento da solo non basta
Siamo a Gerusalemme, nel Tempio, e il tema proposto è centrale: “Qual è il comandamento che indica il senso e l’orientamento di tutto il nostro vivere?”, letteralmente: “Qual è il primo comandamento di ogni cosa?”. La risposta sorprende l’interlocutore e tutti noi: Gesù, pur riferendosi alla tradizione originaria di Israele (cita Dt 6,4-5 e Lv 19,18), “aggiunge” un altro comandamento al “primo”. Come a dire che il primo, pur essendo tale, non esprime a sufficienza come compiere la volontà di Dio. Non basta affermare che il centro di tutto è “il Signore nostro Dio”, che va “amato” con tutto quel che siamo: è necessario aggiungere che questo “amare” si compie rivolgendosi anche verso il nostro “prossimo”.
Un amore che agisce
Nella tradizione biblica il termine “amare” non indica soltanto un sentimento, ma intende anche azioni concrete per aver cura e promuovere il bene dell’altro. Tale modo di fare va diretto verso Dio, ma anche verso se stessi e verso il prossimo. Chi sia il “prossimo” non viene qui specificato: nell’insieme della tradizione evangelica, lo si precisa con la parabola del samaritano (Lc 10,25-37). Lì Gesù afferma chiaramente che il “prossimo” lui lo intende non secondo l’interpretazione restrittiva prevalente al tempo, cioè solo colui che apparteneva al popolo di Israele, ma è chiunque, perfino il samaritano-nemico. La risposta data allo scriba è il condensato della vita stessa di Gesù, pienamente “rivolta verso il Padre” (vedi Gv 1,18) e proprio per questo continuamente spesa al servizio di qualunque “prossimo” incontrava sulla sua via - fino a “dare la vita” per tutti (Mc 10,45).
Un amore che libera
Se Gesù richiama ad “amare il prossimo come se stessi”, allora siamo chiamati a prender consapevolezza che la qualità della cura e dell’attenzione per noi stessi è coinvolta nel nostro amore per il prossimo, e viceversa. Infatti, se so agire per il mio vero bene, supererò il rischio di avere attenzione per l’altro/altra solo per riempire un vuoto di senso, di considerazione, di amore, che avverto in me. E non farò dipendere il mio agire per il bene altrui dalla gratificazione o dall’altrui gratitudine, vivendo il mio fare, il mio amare liberato dall’inseguire nell’altro i miei bisogni e le mie attese. Così facendo, potrò anche lasciare libero l’altro/l’altra nel proprio cammino, anche se questo non corrisponderà a quello che secondo me è il suo bene più vero: negli incontri con tante persone fragili e bisognose, ciò vuol dire anche accettare che le loro scelte non siano, talvolta, secondo una progettualità che ne aiuti l’autonomia... Questo porta a comprendere che l’amore vero promuove la libertà propria e altrui, e che in tale processo spesso è presente anche il conflitto, perché io sono chiamato ad amare “come me stesso” l’altro che è sempre diverso da me.
Un amore che chiede cammino
Quindi, l’amore, e l’agire che nell’amore è fondato, non si improvvisano: chiedono cammini lungo i quali purifichiamo il nostro modo di fare, nella fatica quotidiana della relazione. Amore, infatti, comporta incontro e relazione, esperienze da vivere in pienezza, in rapporto a Dio e agli altri, in questa società in cui sembra prevalere il disamore. Altrimenti, rischiamo di ridurci a “erogatori di servizi”, che siano buoni pasto o borse spesa o accudimento e mantenimento per i figli o per i genitori anziani. Vanno, invece, favoriti cammini in cui pazientemente ci accompagniamo a crescere nella relazione, che genera conoscenza reciproca. Anche con Dio, che talvolta non ci interessa granché, perché non ne conosciamo abbastanza la presenza nella nostra vita.
Un amore che fa crescere grazie all’esperienza dell’altro
Amare nell’incontro e nella relazione con l’Altro e gli altri suscita anche turbamento in noi: avvertiamo che non bastiamo a noi stessi, che il nostro modo di concepire la vita e di viverne i giorni non è l’unico... l’incontro autentico ci stimola a cambiare, a non restare “semplicemente” sempre uguali a noi stessi, a crescere continuamente verso un bene più grande per noi e per gli altri. Lasciarsi toccare il cuore da Dio e dagli altri chiede di proseguire il cammino, insieme. Scoprendo lungo la via che, se in me non si apre uno spazio per l’altro, per l’altra, fino all’Altro, il rischio, alla fine, è che in me non ci sia spazio neppure... per me. Chiuso in me stesso, oscurato lo sguardo da paure e sospetti, perdo la percezione delle vere dimensioni a cui è chiamata la mia vita. Presenze di altri che mi amano per prime, a partire da chi mi ha generato, e da Dio stesso, che continuamente genera in me vita, diventano l’esperienza fondamentale a cui attingere per imparare ad amare noi stessi e a crescere nell’amore di chi è diverso da me. Perfino così immensamente diverso, e immensamente vicino, come il Dio che Gesù ci dona come Padre.
Nota: Per alcune di queste riflessioni sono debitore dello scambio sul testo del Vangelo con alcune operatrici della Caritas diocesana, che ringrazio per le preziose considerazioni condivise. (d.B.B.)