lunedì, 16 settembre 2024
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Michela, ventiduenne in "prima linea con i malati"

Essere nel posto giusto, con le competenze giuste, nel tempo dell’emergenza. Avendo risposto “sì”. E’ accaduto a Michela Fanti, classe 1997, di Santa Maria sul Sile, Treviso, laureata in Infermieristica all’Università di Padova a dicembre, e da marzo in prima linea nell’assistere persone malate di Covid–19. Nipote di Luciano Bottan, una sorella più grande missionaria in Ciad, cresciuta a pane, concretezza, valori e grandi ideali, Michela ha sentito importante mettere a disposizione la propria professionalità dove è più necessario oggi.

Essere nel posto giusto, con le competenze giuste, nel tempo dell’emergenza. Avendo risposto “sì”. E’ accaduto a Michela Fanti, classe 1997, di Santa Maria sul Sile, Treviso, laureata in Infermieristica all’Università di Padova a dicembre, e da marzo in prima linea nell’assistere persone malate di Covid–19. Nipote di Luciano Bottan, una sorella più grande missionaria in Ciad, cresciuta a pane, concretezza, valori e grandi ideali, Michela ha sentito importante mettere a disposizione la propria professionalità dove è più necessario oggi.

“Dopo essermi iscritta all’albo alla fine dello scorso anno ho trovato subito lavoro in una struttura per anziani a Treviso - racconta -. All’inizio di marzo, scoppiata la pandemia, mi è stato proposto di partecipare a un progetto di assistenza ospedaliera per malati di coronavirus dopo la fase acuta, da realizzare nella Castellana; ho accettato senza esitazione, perché ho sentito che per me era importante mettere a frutto quanto ho imparato negli anni della mia formazione universitaria e rendermi utile dentro al bisogno di questo momento con le competenze che ho”.

Non ha pensato alle conseguenze per se stessa, piuttosto è sempre stata molto attenta a non correre il rischio di diventare il “mezzo” di contagio del virus per i suoi familiari o comunque di disagio per loro.

“All’inizio non è stato facile abituarmi a lavorare con tutti i dispositivi necessari: camice, mascherina, guanti, visiera, cuffia; dopo un po’ mi sembrava mancasse l’ossigeno, mi appesantivano”. Poi, però ci si abitua a tutto. No, quasi a tutto. “Il carico psicologico non è poca cosa - racconta -; nella struttura dove lavoro ci sono in prevalenza persone che hanno passato la fase acuta, anziani che non possono trascorrere la quarantena a casa e, purtroppo, anche situazioni molto molto gravi, segnate”. Al contatto diretto con la morte non si fa il callo, mai. “Già prima ci facevo i conti, ma stavolta è stato più difficile: i malati sono in isolamento, soli, non possono vedere le famiglie se non per qualche saluto via telefono, ma non basta. Siamo diventati necessariamente i loro figli, fratelli, genitori pur senza conoscerci e il dono di umanità che io ho ricevuto da loro mi ha aperto il cuore, mi sono sentita onorata”.

Con tutti i dispositivi addosso per i malati è praticamente impossibile distinguere un operatore da un altro: “Eppure loro, guardandoci solo negli occhi imparano a riconoscerci. E’ quello il momento in cui capisci il bisogno e già la costruzione di legami che, data la situazione, diventano subito significativi. Questa reciproca «familiarità» è minima eppure fondamentale per sentirsi meno soli”.

Il gruppo di lavoro in cui Michela è stata inserita funziona molto bene e questo fa la differenza. Persone a suo dire “eccezionali”, che hanno saputo incoraggiarsi a vicenda, sostenersi. “Sento che sto facendo la scelta giusta, che in questo momento è il posto giusto per me. Nel mio futuro prossimo? Spero prima o poi in un’esperienza missionaria in terra africana”.

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