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L'eredità culturale del Sessantotto
Il ’68 non può essere letto solamente come una contestazione verso tutto il sistema. E’ stato anche una stagione culturale assai feconda, che ha avviato dei processi su temi attualissimi, quali il consumismo, la partecipazione, la giustizia sociale, la libertà. Ha segnato sia in positivo che in negativo una generazione di giovani.

Nel 2018 ricorrono i cinquant’anni dalla contestazione nota come Sessantotto. Essa non nasce dal nulla. Accade in un decennio assai movimentato caratterizzato, ad esempio, dal Concilio Vaticano II, dal boom economico, dalle lotte per l’emancipazione dei popoli ex coloniali, dalla Primavera di Praga, ma anche dall’escalation della guerra in Vietnam e dalla Guerra fredda, con la corsa agli armamenti nucleari. Si trattò anzitutto di un movimento culturale globale, che ha avuto alcuni momenti-simbolo nelle rivolte studentesche del 1964 all’università di Berkeley negli Usa, del 1966 alla Sapienza di Roma, con l’uccisione dello studente Paolo Rossi, e del 1968 alla Sorbona di Parigi, sui muri della quale apparve il celebre slogan “vietato vietare” (il est interdit d’interdire) con il quale si voleva indicare il rifiuto di ogni regola, divieto o norma morale, e la difesa della individualità e libertà di ogni persona.
Occupazione di università (ma anche di fabbriche), barricate nelle strade e tante manifestazioni, furono gli strumenti della lotta, anche violenta, contro ogni forma di potere che fosse in qualche modo repressivo delle libertà individuali e garantisse il permanere di privilegi. Proprio nel 1968 a Roma, negli scontri a Valle Giulia tra studenti e polizia, si rese visibile, come scrisse Pier Paolo Pasolini, il paradosso di uno scontro di classe tra i figli del popolo, i poliziotti, e i figli di papà, gli studenti ricchi e mantenuti.
Contro la società dei consumi
Il movimento si manifestò all’inizio degli anni ’60 come contestazione alla società dei consumi, figlia del boom economico, ed ebbe come riferimento culturale e ideologico la critica elaborata dalla Scuola di Francoforte, in particolare da Herbert Marcuse il quale, nel suo celebre libro del 1964 “L’uomo a una dimensione”, denunciava il carattere repressivo della società industriale avanzata, che appiattiva l’uomo alla dimensione di consumatore, libero solo nella possibilità di scegliere tra prodotti diversi. I giovani del ’68 contestavano dunque il consumismo e una vita borghese, comoda e sicura, fino a criticare e deridere quanti tra i loro coetanei cercavano invece, grazie a conoscenze e compromessi, di “sistemarsi”, non certo in fabbrica, ma in banca o in posti ben remunerati e protetti.
Potere e partecipazione
Si trattò anche della contestazione di ogni forma di potere e autoritarismo accademico, politico, militare e persino religioso. Ad essere prese di mira erano le istituzioni che reggevano il potere costituito e che cercavano di contrastare ogni idea o movimento che potesse in qualche modo alterare lo status quo e i privilegi. Tuttavia, secondo Marcuse solo con “l’immaginazione al potere” e con l’unione tra giovani, varie istanze critiche verso il sistema e minoranze emarginate, sarebbe stato possibile avviare un processo, seppur a volte violento, di liberazione e di rinnovamento della società.
Nel contempo cresceva inevitabilmente la forte esigenza di partecipazione e di una gestione comune e solidale delle scuole, delle fabbriche e della chiesa. Quest’ultima nelle sue istituzioni (seminari, associazionismo cattolico, stampa) non rimase esente dal terremoto portato da un tale clima culturale e vide molto presto l’inizio del declino, non solo di tante opere, ma anche del suo influsso sulla società civile e sulla politica, che si rese ben visibile con il referendum sul divorzio del 1974.
Alla rivendicazione di partecipazione si accompagnò anche l’impegno per una maggior giustizia sociale e per l’abolizione delle discriminazioni tra poveri e ricchi. A partire soprattutto dalla denuncia verso una scuola, ritenuta classista, che emarginava i “figli del popolo”. Basti pensare alle provocazioni della “scuola di Barbiana”, con l’opera educativa di don Lorenzo Milani e la sua famosa “Lettera ad una professoressa” del 1967.
Una stagione troppo breve
Il ’68 durò appena un decennio e, soprattutto in Italia e in Germania Ovest, la sua parte più radicale degenerò negli “anni di piombo”, con la strategia della tensione e le stragi perpetrate negli anni ’70-’80 ad opera delle Brigate Rosse e altre sigle terroristiche di destra e di sinistra. L’intento era di abbattere, a partire dall’eliminazione fisica delle persone più rappresentative, i simboli del potere politico, economico e mediatico. La sua forza propulsiva però andò via via esaurendosi per lasciar posto negli anni ’80 alla stagione culturale del “riflusso” e, successivamente, all’inizio del crollo delle grandi narrazioni o ideologie del ‘900, evidenziato simbolicamente nella distruzione del muro di Berlino (1989). Possiamo dire che in quel “vietato vietare” c’erano i prodromi di un’altra nuova stagione culturale, la cosiddetta post modernità liquida, in cui ancora oggi viviamo.
Che cosa rimane?
Il ’68 non può essere letto solamente come una contestazione verso tutto il sistema. E’ stato anche una stagione culturale assai feconda, che ha avviato dei processi su temi attualissimi, quali il consumismo, la partecipazione, la giustizia sociale, la libertà. Ha segnato sia in positivo che in negativo una generazione di giovani. Oggi, tra quei giovani, detti anche “ex sessantottini”, troviamo un po’ di tutto: coloro che sono rimasti prigionieri delle categorie e dell’ideologia di quel tempo perdendo così il treno della storia; quelli che una volta raggiunta una posizione sociale o un’autorità (soprattutto nella scuola), si sono rimangiati tutto; quelli, infine, che dopo 50 anni riescono ancora ad essere puntuali e flessibili di fronte all’evoluzione rapida e complessa della società e della cultura. Sarà interessante comprendere come le celebrazioni di quest’anno reinterpreteranno e rileggeranno questa importante stagione.