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Festival biblico: Giovanni nell'Apocalisse

Si è concluso l'appuntamento trevigiano del Festival biblico, sul tema Apocalisse. Gli appuntamenti culturali, tra convegni e mostre d'arte, sono promossi dalla diocesi di Treviso e coordinati da don Michele Marcato

Giovanni vive nell’isola di Patmos, uno scoglio generato dai vulcani che ardono sotto l’Egeo. Esiliato, forse perseguitato. Dice: “A causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”. Tempi bui per le terre dell’impero. A Roma, dopo le persecuzioni di Nerone, Domiziano mena strage di chiunque gli faccia ombra. Ha sterminato la famiglia di suo cugino, il console Flavio Clemente.
Chi sia Giovanni non sappiamo. Quasi certamente non è il Giovanni autore del più atipico dei vangeli. Parla, oggi come allora, con voce possente. La voce che egli stesso avverte. Imperiosa, simile a suono di tromba. Deve scrivere quanto gli viene detto. E dalla scrittura esce l’Apocalisse, il libro più enigmatico della Bibbia cristiana. L’ultimo, il più aperto sul futuro. Ho vissuto, nei giorni scorsi, il privilegio di proporne la lettura alla mia città, Treviso. Ho avuto tre formidabili compagni di viaggio in Fiorella Colomberotto, Maria Pia Zorzi e Massimo d’Onofrio. Ci ha guidati un sensibile regista, Francesco Lopergolo, ci hanno sorretto due magici musicisti, Luisa Bassetto ed Eddy de Fanti. Esperienza assoluta, travolgente.

Siamo stati con Giovanni, siamo stati Giovanni noi stessi. Non abbiamo parlato con le parole di un profeta, ma con l’assorto, drammatico affabulare di un veggente. Giovanni non prevede il futuro, piuttosto ci vive dentro. Lo interpreta, lo decodifica, lo traduce in tensione etica.
Parla (deve parlare) per simboli. Che sono terribili, angoscianti, non sempre chiari. Hanno provato in tanti a leggervi dentro. Dante, che nel Paradiso terrestre reinventa l’Apocalisse, guarda agli scritti di Gioacchino da Fiore o forse di Pietro di Giovanni Olivi. Per questo evento che ha aperto il festival biblico, ho letto l’esegesi di Enzo Bianchi, già priore di Bose.

L’immagine. Giovanni, il veggente, guarda oltre il mare. Visualizza le sette Chiese dell’Asia minore, Èfeso, ricca dei suoi mercanti, Smirne, crocevia di popoli, Pèrgamo, la splendida, ma anche “città di Satana”. Poi Tiàtira, Sardi, Filadèlfia e Laodicèa. Ogni città ha la sua cultura, peculiarità proprie. Attraverso loro, Giovanni si rivolge agli uomini di ogni geografia e di ogni tempo.
Libro problematico, misterioso. Segnato da un linguaggio perfino esoterico, da iniziati. Ma il messaggio è chiaro, dirompente. La lotta tra il bene e il male è destinata a perpetuarsi in eterno. E Dio ha bisogno di ogni uomo per combatterla. Non ci sono vittorie definitive. Spaventoso è l’annuncio dei mille anni di Satana. Lo si può incatenare, sconfiggere, neutralizzare per mille anni. Ma poi si deve accettare che, almeno per un po’, rialzi la testa. Ho letto dal capitolo 20: “Quando i mille anni saranno compiuti, Satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni che stanno ai quattro angoli della terra, Gog e Magòg, e radunarle per la guerra: il loro numero è come la sabbia del mare. Salirono fino alla superficie della terra e assediarono l’accampamento dei santi e la città amata. Ma un fuoco scese dal cielo e li divorò”. Il mix di verbi al futuro e al passato conferiscono alle parole di Giovanni la cadenza del dramma. Ma “apocalisse” non è catastrofe, non è fine del mondo. Il nome, dal greco, vale “rivelazione”. Ed è epifania di speranza e fiducia nel prevalere del bene. Quanta attualità, quanto dolorante. Penso che a Patmos, la minuscola isola battuta dal mare che fu di Omero e di Ulisse, io potrei e vorrei gettare l’ancora. Sicuro che lì abitano verità e futuro.

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