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Viaggio: il Papa in Mongolia fino al 4 settembre

Dal 31 agosto si recherà in un Paese tanto lontano quanto sconosciuto, il secondo meno popolato del mondo dove vivono meno di 1.500 cattolici

Nella terra di Gengis Khan tra accampamenti nomadi e una lussureggiante capitale, c’è una comunità di cattolici. Papa Francesco dal 31 agosto a lunedì 4 settembre si recherà in viaggio in un Paese tanto lontano quanto sconosciuto come la Mongolia, il secondo meno popolato del mondo dove vivono meno di 1.500 cattolici. In realtà la presenza dei cattolici è una presenza antica che risale ai tempi dell’impero mongolo (XIII secolo), interrottasi tra l’800 e il 900 del millennio scorso fino al dissolvimento dell’Unione Sovietica, quando anche in Mongolia si chiusero da un giorno all’altro i rubinetti delle sostanziose sovvenzioni fornite dai russi per mantenerla nella loro orbita e sottrarla all’influenza cinese.

La ripresa delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Mongolia avvenne così nel 1991.

Il senso di un viaggio

Come altri viaggi di papa Francesco avviene nel nome delle periferie. Il motto del viaggio, “Sperare insieme”, spiega ancora una volta l’idea di Chiesa che prospetta Francesco: una Chiesa missionaria non celebra la propria forza o antica presenza, piuttosto sa dialogare con culture e religioni diverse. La religione predominante, infatti, è il buddismo tibetano, sebbene, in seguito ai decenni di ateismo di Stato, oltre il 30% della popolazione si dichiari tuttora non religiosa.

La Chiesa cattolica in Mongolia è la più giovane tra le chiese particolari nel mondo avendo appena trent’anni. E’ qui che troviamo anche il cardinale più giovane, il missionario italiano Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator.

Fare visita a questo Paese è, quindi, una scelta ecclesiale che va a testimoniare l’impegno cattolico in Asia. Non è un caso che per la prossima Giornata mondiale della gioventù, nel 2027, il Papa abbia scelto la Corea del Sud!

Un Paese giovane e sconfinato

Incastrata tra Cina e Russia, senza sbocchi al mare, la Mongolia con poco meno di 4 milioni di abitanti e grande oltre cinque volte l’Italia. Gran parte del suo territorio è coperto da steppe, con montagne a nord e a ovest e il deserto del Gobi a sud. Un Paese con un età media poco al di sopra dei 29 anni e un’aspettativa di vita di 70 anni; un sistema democratico, anche se fragile, che si trova ad affrontare oggi sfide importanti: crisi economica, inflazione, scarse prospettive occupazionali, urbanizzazione, inquinamento galoppante, diffusa violenza domestica, alcolismo.

I forti contrasti

E’ il Paese dai tanti contrasti, come già raccontato da Marco Polo. C’è il deserto freddo più grande del mondo, d’estate +45°, d’inverno -50°. Un terzo della popolazione vive sotto la soglia della povertà, anche se possiede alcune delle riserve naturali più grandi del mondo di rame, oro e carbone. Negli ultimi 25 anni, grazie alle risorse minerarie, il Paese ha triplicato il suo Pil pro capite, ma le diseguaglianze sono notevoli e le incognite importanti. Il 95% della popolazione sa leggere e scrivere, ma continua ad essere ancora alta la mortalità infantile. Nella capitale Ulan Bator, a 1.300 metri di altitudine, vive quasi la metà di tutta la popolazione della Mongolia tra moderni grattacieli di vetro, edifici di cemento di epoca sovietica e quartieri di yurte - le tradizionali abitazioni mongole - con ampie sacche di povertà che fanno crescere il numero dei bambini che vivono in strada accanto alle enormi tubature che convogliano l’acqua calda nelle case, unico luogo dove possono sopravvivere al rigidissimo inverno.

Un mondo lontano

Per vivere nella terra di Gengis Khan – per noi sinonimo di terrore, per i mongoli eroe e orgoglio nazionale – occorre abbandonare i nostri parametri: le percorrenze non si misurano in ore, ma in giorni e settimane. Tutto appare più dilatato, considerato che più di un terzo dei mongoli preferisce continuare la vita nomade, allevando animali nella steppa, mentre si allarga la frattura sociale, soprattutto con i giovani della capitale, che sognano ritmi e stili di vita occidentali. Un sogno finora impossibile, ostacolato da profondi squilibri economico-sociali di cui al momento non si vede soluzione.

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