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Avvento e speranze degli uomini

L’Avvento, oltre ad avere una dimensione spirituale, essenziale per il cammino di conversione del credente, può anche essere colto nella sua forte valenza antropologica e culturale. Nel senso che può aiutare gli uomini di questo tempo ad essere vigilanti e ad avere a cuore il bene comune e il futuro dell’umanità; ad accorgersi di quello che accade.

05/12/2019

Il nuovo Anno liturgico è iniziato, come sempre, con il tempo di Avvento, in latino adventus, che può essere tradotto con “presenza”, “arrivo”, “venuta”. La liturgia, nelle preghiere e nelle Letture, fa memoria della venuta di Gesù nella carne (avvento natalizio) ma anche, soprattutto nella prima settimana, della venuta di Gesù nella gloria alla fine dei tempi (l’avvento escatologico).

Con la parola “adventus” si intende anche dire che Dio è qui, non si è ritirato dal mondo, non ci ha lasciati soli in balìa degli eventi. Per noi, quindi, il problema vero sta nell’accorgerci o nel vedere i segni della presenza di Dio nella nostra vita e nella storia. Tale coscienza, che viene solo dalla fede, è essenziale per rimanere nella speranza, della quale tutti abbiamo bisogno per vivere e per dare senso alla nostra esistenza, soprattutto quando certi eventi personali o sociali mettono a dura prova la nostra fiducia e rendono opaco e, a volte, angosciante il presente e il futuro.

 

“Non si accorsero di nulla”

Le letture bibliche di domenica scorsa, come un po’ tutta la liturgia dell’Avvento, ci sollecitano a stare svegli, a non cadere nel torpore spirituale o a non dormire. Se è vero, come dice il proverbio, che chi dorme non piglia pesci, è ancor più vero per tutto ciò che riguarda il nostro futuro. Corriamo, infatti, il rischio di non accorgerci e di non essere capaci di interpretare (fare discernimento) ciò che accade attorno a noi; ai processi e ai cambiamenti che stanno portando verso qualcosa di buono, oppure verso situazioni critiche se non addirittura verso il precipizio.

Quando il cuore e la mente sono intorpiditi dagli affanni della vita o presi dalla cura eccessiva di sé e del proprio bene individuale, si corre davvero il rischio di prendere tutto sotto gamba e così non accorgersi di niente. Come gli uomini al tempo di Noè: mentre egli costruiva l’arca, perché aveva capito che le cose si stavano mettendo male, gli uomini mangiavano e bevevano, continuavano, cioè, a fare le loro cose di sempre senza uno sguardo penetrante, per cui, all’arrivo del diluvio, “non si accorsero di nulla”.

Il nostro problema è, dunque, di non accorgerci di quanto sta succedendo e, soprattutto, dei segni premonitori. A volte preferiamo mettere la testa sotto la sabbia o vivere sequestrati dalle nostre cose e lasciare eventualmente ad altri, alla politica e alle istituzioni civili, economiche, culturali, l’onere di risolvere tutto e di preoccuparsi del futuro e della salvezza del mondo.

 

Con gli uomini nel nostro tempo

Tutto questo ci porta a dire che l’Avvento, oltre ad avere una dimensione spirituale, essenziale per il cammino di conversione del credente, può anche essere colto nella sua forte valenza antropologica e culturale. Nel senso che può aiutare gli uomini di questo tempo ad essere vigilanti e ad avere a cuore il bene comune e il futuro dell’umanità; ad accorgersi di quello che accade. Cosa che deve valere ancor più per un cristiano, chiamato da Dio a rendere feconda e abitabile la terra. Sarebbe tragico se anche noi vivessimo senza “accorgerci di nulla”; incapaci per negligenza di cogliere e interpretare quello che ci sta attorno, i processi in atto nella società e nel mondo e, di conseguenza, agire collaborando con tutti gli uomini di buona volontà. Penso, ad esempio, al problema e alla sensibilità crescente verso il clima, la pace, la giustizia sociale e l’equa distribuzione delle ricchezze, l’integrazione e l’accoglienza dei più deboli ed emarginati. Per noi credenti si tratta di cogliere e accogliere, dopo attento discernimento, quei nuovi “segni dei tempi” o di Dio, che stanno emergendo e accreditandosi sulla scena di questo mondo e che rappresentano per tutti, credenti e non credenti, degli appelli e dei segni di speranza per un futuro e ci chiedono di lavorare insieme e non a compartimenti a seconda delle fedi religiose o delle particolari visioni ideologiche di una nazione o di un gruppo sociale.

Giovanni XXIII convocando nel 1961 il Concilio Vaticano II scriveva: “Facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i segni dei tempi (Mt.16,3), ci sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi che fanno sperare sulle sorti della chiesa e dell’umanità”. E due anni dopo nell’enciclica Pacem in terris indicava la condizione dei lavoratori e della donna, il processo di decolonizzazione e il dramma della potenza atomica come segni ai quali prestare attenzione e sui quali impegnarci.

Rimane per noi credenti sempre vivo l’invito di Paolo a fare oggetto dei nostri pensieri e, quindi, del nostro impegno, tutto ciò che di vero, nobile e giusto incontriamo. Perché la speranza, che nasce dal desiderio e dall’attesa, è per un cristiano certamente una virtù teologale, ma anche il pane quotidiano di cui ha bisogno ogni uomo e donna per poter vivere e confidare in un futuro più promettente

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