Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Istituzioni: anima smarrita
Le nostre istituzioni, sulle quali si regge la convivenza sociale, sono profondamente malate, sotto molteplici aspetti, a partire dalle funzioni dirigenziali e di leadership. Hanno, si può dire, smarrito la loro anima. Tanto da far lanciare un appello: “Salviamo la cosa pubblica”. Ed è appunto questo il titolo del recente saggio, edito da Vita e pensiero, che reca come sottotitolo “L’anima smarrita delle nostre istituzioni, nel quale un filosofo, Paolo Gomarasca, e uno psicanalista, Francesco Stoppa, sviluppano un inedito dialogo tra le loro diverse competenze – filosofico-sociologiche da un lato e psicanalitico-terapeutiche dall’altro – affrontando una serie di questioni cruciali: da un profondo e critico ripensamento della funzione della leadership alla necessità di delineare un’etica delle pratiche d’équipe realmente istituente, fino alla scommessa di una formazione non meramente professionale, ma capace di far percepire a chi opera nelle istituzioni l’importanza e la nobiltà del proprio lavoro. Francesco Stoppa, membro del Forum lacaniano in Italia e docente dell’Istituto Icles per la formazione degli psicoterapeuti, docente alla Scuola di filosofia di Trieste e all’Università Lateranense di Roma, sabato 19 ottobre, presenta questo libro a Montebelluna (vedi la segnalazione a destra). Un’occasione per approfondire con lui i contenuti di questo appello.
Professore, le istituzioni, più in generale ciò che chiamiamo “cosa pubblica”, sono davvero malate e hanno bisogno del terapeuta?
Anzitutto, va precisato che le istituzioni sono il fatto umano per eccellenza. Pensiamo, per esempio, alla famiglia, alla scuola, all’informazione, alla religione, alla giustizia... Tutta la nostra vita si svolge attorno a delle istituzioni. Queste, però, come ogni prodotto umano, tendono, inevitabilmente, ad ammalarsi.
Come accade, nella società attuale?
Partirei da un fenomeno che conosco per motivi professionali. Fino a Franco Basaglia, i devianti venivano reclusi, emarginati. Poi, con il padre della riforma degli ospedali psichiatrici, si passa a dare importanza al dolore, alla sofferenza. Un’opportunità per mettere in discussione il primato della produttività e del profitto, per dire che esistono valori più importanti. Negli ultimi decenni, si è passati, però, dalla reclusione all’inclusione forzata della malattia, che non mette in discussione il modo di agire delle istituzioni, che diventano grandi produttrici di servizi standardizzati, incapaci di ascoltare. Vale per la scuola, per la sanità. La burocratizzazione sacrifica ciò che è più importante. In definitiva, assistiamo a un processo per cui l’istituzionalizzazione diventa aziendalizzazione.
Contemporaneamente, però, abbiamo realtà come i social network dove la protesta, la rabbia, circolano a volontà. Come leggere questo fenomeno?
Si tratta di tentativi, che definirei patetici, estremi e disperati, per ovviare a un senso di smarrimento. Di fatto, l’uomo si comprende solo dentro a una comunità, a relazioni intersoggettive. Noi, però, ci troviamo a vivere in una società che fa a pezzi l’idea di comunità, siamo pensati come persone singole, blandite dal mercato e dalla tecnica. Nessuno può avere un corpo proprio, se non c’è un corpo sociale nell’orizzonte. Per Basaglia, già il rapporto tra madre e bambino va visto nella prospettiva della comunità. La dimensione sociale è centrale nell’essere umano, e aggiungo che, in questo, la religione ha una importante funzione connettiva.
Il Covid ha accelerato e accentuato il processo di cui ci sta parlando?
Sicuramente, e al tempo stesso è stata un’occasione sprecata, come spesso capita nella società occidentale, pensiamo all’esperienza della guerra. Il Covid ci ha mostrato i limiti della scienza e della tecnica. Non eravamo preparati a esso, anche a causa della mancanza di adeguati presidi sanitari territoriali.
La crisi della cosa pubblica è anche una crisi di leadership?
Sì, oggi viviamo, appunto, una crisi di classi dirigenti, naturalmente senza generalizzare. Si assiste, però, a un’inclinazione al proprio personale interesse, a quello di squadra, di parte, di clan. Mi colpisce l’incapacità di ascoltare la collettività.
Come se ne esce?
Chiaramente, molto ruota attorno a questo quesito. Di certo, le leggi sono ottime. Il problema è come fare per renderle vive. Nelle istituzioni sarebbero importante imparare a fare squadra, a dare senso a un impegno che non può essere solo “tecnico”, ma anche etico, civile. Penso, in primo luogo, ancora alla scuola e alla sanità, e, poi, all’informazione. Occorre creare maggiore consapevolezza del lavoro nelle istituzioni. Esiste, poi, la questione di ciò che si intende per “sacro”. E’ l’eccedenza della vita, richiama qualcosa che sanguina. Noi siamo chiamati a trattare il sacro; pensiamo, qui, alla funzione della religione. Altrimenti, se neghiamo questi aspetti, a partire dall’aggressività, succede che questa, non elaborata, si scatena. E assistiamo a esplosioni di violenza cui non eravamo abituati. Mancano i contesti sociali per elaborare queste situazioni.
Oggi, poi, si riaffaccia la prospettiva della guerra, mai così vicina a noi...
La guerra è connessa alla violenza. Mancano parole come alleanza, dialogo. Per certi aspetti, la guerra diventa quasi “normale”, ci si abituiamo, ma solo perché la vediamo in televisione. La guerra, in realtà, è una cosa spaventosa, ma nella società del consumo perdiamo la capacità di stare al passo con la complessità della vita. Questa incapacità, poi riguarda sia la dimensione “micro” che quella “macro”. Nei contesti locali, si scatenano i femminicidi, le baby gang, le aggressioni.