Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Niente tregua olimpica, sempre piu’ armi e guerre
Domenica scorsa papa Francesco, dopo l’Angelus, è tornato a parlare della guerra e del tema delle armi. “Mentre nel mondo c’è tanta gente che soffre per le calamità naturali e la fame, si continua a costruire e vendere armi e a bruciare risorse alimentando guerre grandi e piccole”, ha detto. “E’ uno scandalo che la comunità internazionale non dovrebbe tollerare e che contraddice lo spirito di fratellanza dei Giochi olimpici appena iniziati”, ha sottolineato il Papa, che ha, poi, invitato i fedeli a “non dimenticare che la guerra è una sconfitta”.
Nelle stesse ore sempre a Roma la diplomazia si è riunita per trovare una via di uscita alla crisi israelo-palestinese che sembra allargarsi oltre Gaza, mentre nei conflitti in Ucraina, Sud Sudan, Myanmar e Yemen continua la conta dei morti.
La tregua olimpica auspicata da più parti non sta reggendo, anche se per gli studiosi dell’Institute for Economics and Peace (Iep), un centro studi con sede a Sidney (Australia), la pace dovrebbe essere realisticamente concepita come un concetto che non è necessariamente coincidente con l’assenza di guerre, così come sosteneva il pioniere della ricerca sulla pace Johan Galtung. Tramite una serie di valutazioni e di pesi viene calcolato il Global Peace Index (tradotto Indice della pace globale), GPI, che classifica ogni anno 163 paesi – che coprono il 99,7% della popolazione mondiale – basandosi su 23 indicatori in grado di misurare i conflitti in corso (interni ed esterni), la sicurezza sociale (come il numero di omicidi e il tasso di carcerazione) e le spese militari. I nuovi dati sono usciti lo scorso 10 giugno e rilevano che molte delle condizioni che precedono i grandi conflitti sono più elevate di quanto lo siano state dal dopoguerra ad oggi. Attualmente secondo il think thank australiano ci sono 56 conflitti attivi, il maggior numero dalla fine della seconda guerra mondiale, e con un minor numero di conflitti in fase di risoluzione, sia militarmente che attraverso accordi di pace.
Secondo il GPI 2024, l’impatto della violenza sull’economia globale è stato di 19,1 trilioni di dollari, pari al 13,5% del PIL globale, ovvero 2.380 dollari a persona. I costi associati alle morti nei conflitti e alle perdite del PIL derivanti dai conflitti stanno aumentando in modo significativo.
Se l’Islanda continua a collocarsi dal 2008 al primo posto del GPI per assenza di violenza, ridotte spese militari e politiche attive volte a promuovere la pace, l’Italia si trova al 33° posto. Chiudono la classifica Gambia e Turkmenistan. Per leggere i dati abbiamo intervistato Steve Killelea, fondatore e presidente dell’Iep.
Il numero globale di conflitti in corso che avete rilevato è il più alto dalla Seconda guerra mondiale. Presidente Killelea il mondo si trova a un bivio?
Sì, i conflitti stanno diventando sempre più difficili da vincere e stanno diventando sempre più internazionalizzati. Da quando, nel 2008, abbiamo cominciato a misurare la pace mettendola nero su bianco con il Global peace index (Indice della pace globale)mai così tanti Paesi erano stati coinvolti in un conflitto oltre i loro confini. Due dati emergono in modo significativo. Il primo, che la guerra si presenta asimmetrica, il che significa che piccoli gruppi possono affrontare eserciti molto più grandi. I droni ne sono l’ultima manifestazione. Il secondo è che l’internazionalizzazione del conflitto rende molto più difficile ottenere una soluzione, in quanto vi sono più attori coinvolti.
A proposito di nuove tecnologie militari. Come i droni stanno cambiando l’evoluzione dei conflitti?
Con l’aumento della domanda di droni, Stati come la Turchia e l’Iran hanno ampliato le loro esportazioni di droni militari. Il ruolo crescente della Turchia come uno dei maggiori esportatori mondiale di armi di “media potenza” la sta portando ad avere una maggiore influenza in molti Paesi in conflitto, inclusa la regione del Sahel centrale. I droni si sono dimostrati una tattica ragionevolmente efficace ed economica, che riduce al minimo il rischio e amplia la gamma di obiettivi raggiungibili. Ciò consente alle parti meno dotate di uomini e armi pesanti di superare i propri limiti nelle capacità militari, rendendo più costosa e difficile la vittoria per la potenza più forte. La relativa facilità di accesso e di funzionamento di questa tecnologia ha reso molto più semplice per i gruppi di resistenza armata (ndr, ne sono un esempio gli Houthi) organizzare attacchi.
Nel Rapporto si evidenzia che quasi la metà dei paesi del mondo hanno peggiorato il loro livello di pace nel 2024. Quali sono gli indicatori di questo tragico primato?
Nel 2023, 97 dei 163 paesi del GPI hanno registrato un peggioramento. Questo è il dato più negativo dall’inizio dell’elaborazione dell’indice GPI. Il principale fattore di questo è l’ambito dei conflitti che è peggiorato del 18% dal 2008. Una nota più positiva è che sia il tasso di omicidi che la percezione della criminalità sono entrambi migliorati negli ultimi 18 anni.
Nel Rapporto si rileva che la crescente complessità e la crescente internazionalizzazione dei conflitti hanno ridotto la probabilità di raggiungere soluzioni durature, portando a “conflitti eterni”, come quelli che infuriano in Siria, a Gaza e, ora, in Ucraina. Cosa è chiamata a fare la comunità internazionale?
Man mano che il numero di conflitti irrisolti aumenta, aumenta la probabilità che si verifichi un altro grande conflitto. È fondamentale che i leader lavorino per risolvere i conflitti possibili prima che scoppino. I conflitti comportano anche un costo economico importante: ad esempio, l’economia siriana è crollata dell’87% nei 10 anni successivi allo scoppio del conflitto, mentre l’economia ucraina è crollata del 29% dopo il primo anno di conflitto.
Il Global peace index (Gpi) evidenzia che la spesa militare europea è in aumento, nel timore che la guerra in Ucraina si espanda. Non proprio un bel segnale per il Vecchio continente?
Dieci Paesi hanno aumentato le loro spese militari nel 2023, il massimo dall’inizio del Gpi, e si prevede che nei prossimi anni le capacità militari continueranno a crescere.
Quali potrebbero essere le conseguenze di una mancata inversione di rotta dalla guerra alla pace?
La guerra ha un prezzo elevato: ad esempio, se scoppiasse una guerra regionale in Medio Oriente che coinvolgesse Egitto, Israele, Giordania, Iran e Libano, l’impatto sull’economia globale sarebbe devastante. Le economie di questi cinque Paesi messe insieme valgono circa 3 trilioni di dollari all’anno, se ci fosse un calo del 30% sarebbe poco meno di 1 trilione di dollari e ci sarebbero effetti migratori per molti altri Paesi. Ciò aumenterebbe i flussi di rifugiati in Europa e aumenterebbe la probabilità di attacchi terroristici. L’impatto economico potrebbe essere sufficiente a spingere l’economia globale in recessione.