martedì, 17 settembre 2024
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Sudan, la guerra dimenticata. Il conflitto si allarga, quattro milioni e mezzo di sfollati

La rivalità tra il presidente e il suo vice all’origine degli scontri; non ci sono segnali di tregua, nel disinteresse del mondo

Sono già passati sette mesi, da quando (15 aprile) è scoppiata una battaglia nella capitale del Sudan, Khartoum, innescando una guerra che da allora continua a bruciare incessantemente. I grattacieli della città sono andati in fiamme, il suo centro è completamente desolato, i suoi mercati sono stati saccheggiati e i suoi sobborghi sono diventati un campo di battaglia dove i residenti intrappolati vengono colpiti e bombardati.

Di questa guerra civile nel terzo Paese africano più esteso, grande tre volte l’Ucraina, si è parlato poco. Forse alcuni non si ricordavano che fosse terminata quella precedente con la nascita 10 anni dello Stato del Sud Sudan. Certo è che in questi mesi se n’è parlato più per la presenza dei mercenari russi della Wagner – amici di entrambi i contendenti che qui estraggono l’oro, mentre i cinesi comprano il petrolio – che per l’inferno che vive la popolazione civile. Se il numero delle vittime appare fin qui relativamente “contenuto” (10 mila morti), preoccupano gli oltre 4,5 milioni di sfollati interni e oltre 1,3 milioni di profughi scappati nei Paesi confinanti (principalmente Egitto, Ciad e Sud Sudan). Tra loro anche i rifugiati eritrei, etiopi e sud sudanesi accolti dal Paese.

I costi del cibo sono aumentati in maniera significativa, cambiando in modo importante le abitudini alimentari. Un impoverimento della dieta che rischia di avere forte impatto sulla salute e dove attualmente metà dei quasi 50 milioni di abitanti ha bisogno di aiuto umanitario.

Dalla città ai villaggi

La guerra si è allargata ad aree finora non colpite e la mobilitazione di armi e combattenti continua. E così dalla capitale Khartoum si sono estesi alla regione del Darfur, nel sudovest del Sudan, riportando l’orologio indietro di 20 anni, ai massacri genocidari compiuti dalle milizie arabe di etnia Janjaweed, negli anni conglobate nelle Rsf, che fino al 14 aprile 2023 erano conosciute come le corrotte guardie di frontiera su una delle più battute rotte migratorie africane.

Purtroppo, l’aggravamento della crisi politica e degli scontri tra fazioni militari in Darfur fa registrare una nuova ondata di pulizia etnica nei confronti delle persone di etnia Masalit.

E, poi, si è allargata anche al vicino Ciad, dove circa 50 mila persone sopravvivono da mesi in rifugi di fortuna, senza alcuna assistenza o servizi di base, nella zona orientale al confine con il Sudan, da cui sono fuggite a causa di guerra e violenze interetniche.

Rivalità sfociata in conflitto

Gli scontri tra le Forze armate sudanesi (Saf) fedeli al capo del Consiglio sovrano che guida il Paese, generale al-Burhan, e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), guidate dal numero due della giunta, il generale Dagalo, che si contendono il potere, sono sempre più violenti. I due generali, nell’ottobre 2021, avevano insieme orchestrato un colpo di Stato, che aveva di fatto ribaltato la transizione verso un governo civile, avviata dopo la cacciata di Omar al-Bashir, nel 2019. Le rivalità tra i due si sono acuite, fino a confluire in un aperto scontro armato. Le due fazioni dell’ex regime militare, le Saf e le Rsf, si rifiutano di negoziare un cessate il fuoco, e stanno invece combattendo strada per strada, con un disprezzo quasi totale per i civili.

La situazione oggi

Dopo sei mesi non ci sono segnali di tregua, anche perché i Paesi occidentali sembrano poco interessati a porre fine alla guerra. Nel contesto degli sforzi per trovare una soluzione al conflitto in Sudan, i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (tra cui Qatar, Emirati, Bahrein, Arabia Saudita, Sultanato dell’Oman e Kuwait) hanno espresso preoccupazione per le ripercussioni dell’attuale crisi del Sudan, e la Turchia sta cercando di proporsi come mediatrice.

Il conflitto in Sudan è entrato nel suo ottavo mese e non ci sono segnali che si stia esaurendo. Anzi, secondo osservatori sul campo, la situazione potrebbe peggiorare in almeno cinque diversi modi.

Scenari possibili?

Per il team di autori del think tank Sudan War Monitor, un primo scenario riguarderebbe il blocco dell’esportazione di petrolio, linfa vitale per l’economia sudanese, con il rischio di un ulteriore collasso dello Stato, che probabilmente trascinerebbe con sé anche il vicino Sud Sudan, provocando forse una nuova guerra civile allargata a tutta la regione. Un secondo scenario, peggiore dell’attuale, vede entrare in guerra gli ex ribelli del Darfur, finora rimasti neutrali, con un allargamento della guerra civile.

Un terzo scenario di estensione si potrebbe avere se la violenza in Darfur, guidata da Rsf e combattenti arabi, che finora ha preso di mira soprattutto i popoli Masalit, si rivolgerà ad altre tribù della regione, come i Fur e gli Zaghawa.

Un terzo scenario di allargamento del conflitto potrebbe verificarsi se i paramilitari delle Rsf, che ora controllano buona parte di Khartoum, attaccassero un’altra importante area urbana, come le città di al-Obeid, Wad Madani e Shendi.

Infine, la già drammatica situazione umanitaria del Paese potrebbe deteriorasi ulteriormente a causa di una recessione economica globale o il maggior interesse per altre situazioni di crisi che riduca drasticamente i finanziamenti umanitari per il Sudan.

La stragrande maggioranza dei sudanesi desidera la pace, secondo il think tank Sudan War Monitor. Eppure, la storia ci dice che le guerre civili in Sudan sono generalmente di lunga durata e difficili da porre fine. La prima guerra civile post-indipendenza del paese, conosciuta come Guerra di Anyanya, durò 17 anni, dal 1955 al 1972. La seconda guerra civile, che ha portato all’indipendenza del Sud Sudan, è durata 22 anni, dal 1983 al 2005. La guerra del Darfur è durata 17 anni, dal 2003 al 2020, e la guerra nel Blue Nile, regione di confine con l’Etiopia, dura da 12 anni, anche se con periodi di calma.

Bussole

E così la conta delle guerre arriva a cinque. I cambiamenti climatici e il depredamento delle risorse fanno sì che oggi si stia superando la linea rossa, con il popolo sudanese, da lungo tempo sofferente, non più in grado di sopportare i costi, non solo umani, di un’altra terribile guerra. Un’altra generazione rischia di crescere segnata dalla violenza, impoverita, esiliata da casa e pronta a partire verso terre nuove alla ricerca di un futuro migliore. Una lettura puramente etnica o regionalista risulta incapace di cogliere le molteplici motivazioni alla base della sequenza di guerre civili in questo paese afro-arabo che rappresenta a livello geopolitico la somma delle sue differenze: diseguaglianze tribali ed economiche, presenza economica e militare straniera, crocevia migratorio, mancanza di democrazia.

E’, perciò, necessaria molta più urgenza per porre fine a questo conflitto – e mitigarne gli effetti catastrofici –, prima che sei mesi diventino un anno, e poi cinque, e che sei milioni di sfollati diventino otto o dieci milioni.

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