Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Il reportage: In fuga dalla Costa d'Avorio
In viaggio dall’Africa all’Italia per comprendere le ragioni dei giovani ivoriani che, da febbraio 2023, sbarcano numerosi nel nostro Paese o rimangono bloccati in Tunisia. Gli incontri ad Abidjan con chi lavora per fermare l’emigrazione
Da aprile fino a oggi, ascoltiamo impauriti, indifferenti, manipolati da politici, giornali e televisioni, notizie in numero sempre più elevato di arrivi e respingimenti di migranti: “Frontex: nel Mediterraneo centrale record di arrivi, 42mila nel 2023”, “Il ministro Matteo Piantedosi a Tunisi, un buco nell’acqua”, “Lampedusa al collasso”, “Subsahariani, indesiderati a Tunisi”. Mi incuriosisco: chi sono i subsahariani? Scopro che la maggior parte di coloro che hanno chiesto aiuto alle proprie ambasciate per essere rimpatriati da Tunisi con voli speciali, sono ivoriani. Vengo a sapere, inoltre, che la Tunisia, di cui sin dal 2011 ho seguito con grande passione le elezioni, sta diventando, nelle alte sfere e in buona parte della popolazione (si salvano alcune ong sui diritti umani), un Paese xenofobo. Il 21 febbraio Kais Saied, attuale presidente tunisino, per evitare i grandi problemi interni del Paese a noi dirimpettaio, ha promosso la teoria della grande sostituzione, sostenendo che “alcune parti avrebbero ricevuto grandi somme di denaro a partire dal 2011, per portare immigrati irregolari subsahariani in Tunisia, allo scopo di ridurre il Paese alla sua dimensione africana e svuotarlo della sua presenza arabo-islamica”.
Abidjan, maggio - giugno 2023
La città è la grande capitale da 6 milioni di abitanti della Costa d’Avorio, frutto di un continuo flusso di persone dai villaggi e dall’interno, che hanno portato questa megalopoli (luoghi che secondo le Nazioni Unite, nel 2030 ospiteranno il 60% della popolazione mondiale) a estendersi con dieci “comuni - quartieri” da un milione di abitanti ciascuno, come una grande piovra verso la laguna di un oceano. La città è stata un forte fenomeno attrattivo nel boom economico degli anni ‘80 verso le popolazioni dei Paesi limitrofi come Mali e Niger, ma soprattutto verso i burkinabè, che sono arrivati in massa e a cui è stata affidata la costruzione del porto, dei ponti lagunari e del Plateau. I fattori per cui la Costa d’Avorio è diventata il Paese con uno dei tassi di emigrazione più alti nella rotta mediterranea, si trovano nell’incertezza creata dalla guerra civile, anche se negli ultimi anni vi è un notevole successo economico e stabilità politica. In questo grande Paese di accoglienza, i problemi nascono negli anni ‘90 con il multipartitismo, che degenera in problemi etnici, crisi monetaria e, infine, con la morte del padre fondatore Félix Houphouet-Boigny. Dal 1993 in poi la politica si destabilizza e nel 2000 viene eletto Laurent Koudou. Dal 2002 al 2004 scoppia la guerra civile. Nel 2011 cade il governo di Koudou e inizia quello attuale di Alassane Ouattara, appoggiato dalla comunità internazionale. Le ragioni dell’alto tasso di emigrazione vanno, inoltre, ricercate nel folle inurbamento e nella presenza altissima di popolazione in fascia giovanile tra i 15 e 25 anni (età media 19 anni), che si posiziona per la gran parte in lavori informali e precari, come l’80% della popolazione attuale (circa 28 milioni e mezzo). Infine, è complice anche l’incoraggiamento dei social network, che descrivono l’Europa come l’Eldorado. Fattori di cui noi italiani, immagino, siamo ben consapevoli.
Oggi, tra i giovani che attraversano la rotta mediterranea e arrivano a Lampedusa (dai 13.000 iniziali nel 2016 e ogni anno in aumento), la metà reclama la cittadinanza ivoriana, nonostante il governo la conceda solo attraverso il diritto di sangue. Può capitare, infatti, di avere un cognome che pare tipico della Costa d’Avorio (ad esempio Koubali, Traorè), ma che in realtà proviene dal Mali o dal Burkina Faso e, grazie a ciò, quando si arriva in Italia, ci si dichiara come cittadino ivoriano.
Lavoro quotidiano e di controtendenza
Dopo la solita, quotidiana battaglia con un traffico che mai ho visto così caotico, arrivo all’ufficio centrale dell’Avsi, una grossa ong italiana che è qui da molti anni e lavora su vari fronti, come educazione, salute, violenza, infibulazione delle donne e soprattutto, dal 2019, finanziati dalla Cei e dall’Unione Europea, su progetti di rientro e di reintegrazione dei migranti. Lorenzo Manzoni, responsabile nazionale e acuto conoscitore del Paese, non ha dubbi sulla disoccupazione giovanile ivoriana: “Il dramma nazionale è che non c’è lavoro per i giovani, o meglio, è per l’80% informale e precario come quello della strada e del piccolo commercio. Si tenta di metterlo in regola, ma non è poi così semplice. Il lavoro informale corrisponde a un mercato fragile ed è per molti l’unica soluzione per sopravvivere. Se spingi queste persone a registrarsi, come abbiamo fatto noi con alcuni progetti, cadono vittima del fisco. Nel tentativo di andare avanti subentrano vari fattori, come i meccanismi di famiglia, per cui i figli vengono spediti in varie città, per la loro sopravvivenza. Oggi queste maglie di solidarietà sfuggono alla tradizione, perché l’affido del bambino alla famiglia allargata si trasforma spesso in uno sfruttamento di questi bimbi; ecco spiegata, quindi, l’emigrazione minorile”. Denise, un’appassionata operatrice dell’Avsi che segue rientro e sensibilizzazione contro l’emigrazione irregolare, racconta: Con un finanziamento della Cei e dell’Ue, nell’ambito della campagna «Liberi di partire, liberi di tornare» e in collaborazione con la Caritas Tunisia che individua i soggetti, abbiamo aiutato per il loro rientro circa 1.800 emigrati dal 2019 al 2021. Abbiamo partecipato al rientro assistito di circa 20 persone dall’Italia. Mettendoci, però, nei panni di uno di questi migranti, capiamo che non è affatto semplice il percorso di reinserimento, tanto che spesso, una volta iniziato il progetto individuale, spariscono e non si fanno più sentire”. Eppure, soprattutto grazie ad alcune persone rientrate dai Paesi arabi come Marocco, Libia e Algeria, si è formata presso Avsi l’associazione “Diaspora”. E’ commovente ascoltare voci come quella di una donna, che con coraggio è partita e poi rientrata dalla Libia, ed è ora proprietaria di due allevamenti di polli. Urla: “Non lasciate l’Africa, è il nostro futuro”. La campagna contro l’emigrazione senza regole si svolge tutt’ora nelle scuole, nei centri di ritrovo dei giovani e nelle moschee, “perché abbiamo saputo - continua Denise - che vi era una benedizione degli imam per partire, e ora che conosciamo gli obiettivi, interveniamo tramite le mamme, i leader religiosi e le università con spot televisivi e social. Lo abbiamo fatto ad Abdjan, Bouakè e Daloa, considerata una zona di partenza dei passeur, i trafficanti”. Mi muovo attraverso alcuni villaggi abbastanza poveri, i folti gruppi di giovani di fianco al baracchino di vendita di birra hanno tutti il cellulare in mano, chissà che Eldorado/Europa guardano? Rientro a Koumassi per parlare con un salesiano, padre Fernand, che è responsabile, nella baraccopoli, di un grande e un po' sgangherato centro sportivo, dove ogni giorno trascorrono il tempo quasi 400 giovani, sempre con il cellulare in mano. C’è chi tenta di “fermare l’onda” dell’oceano giovanile ivoriano e africano, ma è, e sarà sempre più difficile.