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Baby gang: ragazzi senza futuro

Il fenomeno tocca le nostre città e i nostri piccoli e medi centri. Non è solo un fatto di devianza o di degrado. Ne parliamo con Nicola Michieletto, dell’Ulss 2, che spiega: Molti ragazzi “vivono in una sorta di realtà parallela”, in cui ogni desiderio sembra realizzabile immediatamente

Il sole tramonta sulla Loggia dei Grani a Montebelluna, tingendo di arancione le antiche pareti. Mentre le famiglie si ritirano nelle loro case, gruppi di adolescenti emergono dalle ombre, portando con sé un’aria di inquietudine. Nel cuore del Veneto, il fenomeno delle baby gang sta gettando un’ombra scura sul futuro della nostra gioventù.

Immaginate Matteo, 16 anni, occhi scuri e sguardo sfuggente. Fino a sei mesi fa, era un ragazzo come tanti, con sogni e aspirazioni. Oggi lo troviamo in un angolo di piazza Giorgione, a Castelfranco Veneto, circondato da altri giovani con lo stesso sguardo perso. Cosa è successo a Matteo e ai suoi coetanei? “Non vedevo un futuro”, la probabile confessione a bassa voce. “La scuola, il lavoro... sembrava tutto così distante e irraggiungibile. Qui, con gli altri, almeno mi sento qualcuno”.

Le parole di Matteo risuonano come un campanello d’allarme. Quando i nostri ragazzi non riescono a immaginare un domani, si rifugiano dove si sentono accettati, qualcuno si aggrega alle baby gang.

Giovanissimi, riuniti in piccoli gruppi di una decina di elementi, commettono reati, furti, atti di vandalismo e violenza. Dietro queste manifestazioni asociali si nascondono storie di vite sospese tra l’infanzia e una maturità che incute paura. Le baby gang non sono solo il prodotto della devianza giovanile, ma esprimono un bisogno disperato di appartenenza. A differenza del bullismo, dove c’è un carnefice e una vittima, le baby gang si muovono come un’entità unica, con regole, gerarchie e un forte senso di appartenenza. Per molti ragazzi, diventano l’unica “famiglia” che sentono di avere.

Sarebbe facile attribuire tutto al degrado sociale, ma la realtà è più complessa. Secondo gli esperti di psicologia sociale, non esiste un legame diretto tra povertà e baby gang.

Più spesso, quello che emerge è una profonda disconnessione familiare: genitori assenti, conflitti non risolti, mancanza di comunicazione. Questi sono i veri nemici dei nostri giovani.

Nicola Michieletto dirige l’Unità infanzia adolescenza famiglia e consultori dell’Ulss 2. Lo abbiamo intervistato, a partire dagli episodi di violenza giovanile che sono stati registrati nel territorio.

Come legge il fenomeno dell’adolescenza deviante, in particolare delle baby gang?

Mi faccia, prima, dire che la stragrande maggioranza dei giovani è positiva, e fa esperienze sane. Purtroppo, quando ci sono notizie di cronaca che coinvolgono le baby gang, queste colpiscono l’opinione pubblica. Dall’altro lato, non diamo abbastanza risalto al fatto che, anche dopo il periodo complesso del Covid, la maggioranza dei giovani è riuscita a ricostruirsi e a evitare problematiche patologiche.

Quale impatto hanno gli episodi di violenza giovanile sulla società?

Il fenomeno delle baby gang impatta sulla percezione della sicurezza pubblica. C’è una crescente tristezza tra i giovani. La pandemia ha ridotto i momenti di aggregazione, necessari per vivere un’adolescenza sana, e questo ha alimentato un senso di vuoto. Alcuni giovani, pur di attirare l’attenzione e finire al centro della cronaca, sono disposti a fare qualsiasi cosa. Vivono in una sorta di realtà parallela, in cui ogni desiderio sembra realizzabile immediatamente, creando una discrepanza tra ciò che i ragazzi sono e ciò che vedono, soprattutto se basano le loro aspettative sul mondo virtuale dei social media. Questo, rende ancora più pesante l’impatto con la realtà, che richiede, invece, competenze reali.

Secondo lei, come possiamo recuperare questi giovani?

Dovremmo concentrarci sul fermare questa “macchina dei desideri”, e puntare su valori e beni da realizzare nella vita reale. La crescita personale dovrebbe basarsi su tre elementi fondamentali: sensibilità, empatia e rispetto. In particolare, dobbiamo recuperare una componente di autorevolezza dei genitori, della scuola e di tutte le figure educative. E’ educativa anche la disciplina, la fermezza e la consapevolezza del rispetto dei limiti.

Quali sono gli strumenti concreti per raggiungere questi obiettivi?

Se un giovane subisce delle ingiustizie, deve imparare a reagire nei modi corretti, e, per farlo, dobbiamo ripensare la nostra presenza sul territorio. Un maggiore coinvolgimento delle forze dell’ordine può contribuire a creare un ambiente più sicuro, ma è necessario anche offrire ai ragazzi esperienze di riflessione e crescita. In questo contesto, svolgono un ruolo chiave organismi come l’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) e l’Ufficio di servizio sociale per minorenni (Ussm), che si occupano del recupero dei minori che hanno commesso reati.

Ma come si può personalizzare l’intervento educativo?

Esistono personalità diverse: alcuni sono “leader negativi”, altri, invece, possono essere più timidi o insicuri, trascinati in forme delinquenziali . Ogni intervento deve essere calibrato sulla specifica tipologia di ragazzo. Serve coinvolgere le famiglie nel processo di recupero, perché spesso “la mano destra non sa cosa fa la mano sinistra”, nel senso che i genitori non sempre sono consapevoli del percorso intrapreso dai propri figli. Tutti, famiglie e Istituzioni, devono lavorare insieme per un recupero valoriale e sociale dei giovani.

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