Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Cop28: troppo legati a interessi economici
Un vertice con pochi passi in avanti, ma ampi argomenti di discussione sulle strategie proprie da far diventare comuni.
È il caso del nucleare, che ha trovato d’accordo una ventina di Paesi produttori nel triplicare la produzione entro il 2050, come risposta concreta. Ovviamente gli stessi Paesi nulla hanno detto su come garantiscono lo smaltimento in sicurezza delle scorie e delle acque di raffreddamento al loro interno o se questi vengono portati a inquinare altrove.
Una promessa per questo o quel progetto appare poca cosa se l’obiettivo fosse quello di ridurre le emissioni e non salvaguardare gli interessi economici di parte. Per questo una delle parole chiave per spiegare gli esiti del vertice di Dubai non può che essere “greenwashing” ovvero le dichiarazioni ecologiste di facciata.
È rimasto inascoltato l’appello di papa Francesco che nel suo messaggio ai partecipanti aveva chiesto che una parte degli investimenti per gli armamenti e le spese militari fosse destinata dai Paesi della Cop28 a combattere il cambiamento climatico.
È mancata la volontà dei partecipanti più ricchi a compiere dei passi in avanti verso il raggiungimento degli obiettivi climatici stabiliti a Parigi nel 2015. È diventato quasi ossessivo parlare di obiettivo “net zero” (o emissioni nette zero), per riferirci all’equilibrio fra la quantità di gas a effetto serra prodotti dalle attività umane, e la quantità rimossa dall’atmosfera (tramite mezzi naturali, ripristino delle foreste, o tecnologici, cattura e stoccaggio nell’aria), non trovando i governi punti di incontro su quale aspetto deve essere prioritario: ridurre le emissioni nocive, o concentrarsi sui mezzi per rimuoverle? Perché il problema è che le emissioni nocive continuano a crescere nel Sud del mondo, che non intende rinunciare allo sviluppo solo perché il Nord, molto più ricco, oggi può permettersi di chiedere energia pulita.
Abbiamo chiesto di aiutarci a porre l’attenzione su alcuni concetti emersi, al prof. Riccardo Moro, docente di economia presso l’Università degli Studi Milano e segretario generale dell’ong Lvia.
Nei giorni scorsi uno studio su Science ha ricostruito le concentrazioni di CO2 e le temperature della Terra negli ultimi 66 milioni di anni. Mai così tanta CO2 nell’atmosfera, ma a Dubai si litiga sulla riduzione dei combustibili fossili...
La scienza ci dice cose sempre più chiare, ma che a volte il mondo dell’informazione tende a semplificare. Certamente c’è un consenso unanime nel dire che storicamente abbiamo avuto una crescita delle emissioni, che si traduce in un aumento della temperatura, innalzamento dei mari, processi di desertificazione, per cui una riduzione della possibilità delle Terra di produrre e nutrire. I dati, le ricerche ci aiutano a capire in quale direzione muoverci, ma l’uomo deve fare la sua parte. Ecco allora che non sono soluzioni quelle di pensare alla Groenlandia come nuova terra da coltivare, per effetto dei cambiamenti climatici, mantenendo l’attuale modello di sviluppo o il rincorrersi nell’accaparramento di terre per le materie prime da sfruttare a basso costo.
Quali possono essere allora delle strade possibili?
Una delle strade percorribili è certamente quella di trasformare i processi di produzione di energia riducendo l’utilizzo di combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) che producono emissioni di CO2. Esiste, tuttavia, un problema in quanto c’è un’enorme parte della popolazione mondiale – ndr che ha superato gli 8 miliardi – che oggi di fatto dipende da una produzione di energia basata sul carbone. Questo avviene in Cina e in India in modo particolare, ma anche in altri Paesi... Ecco che risulta assolutamente necessario slegarsi da queste fonti produttive, però è altrettanto chiaro che non è possibile farlo da un giorno ad un altro. Certamente vi sono attori che hanno dei forti interessi economici ed ostacolano il processo di uscita dai combustibili fossili, come l’attuale presidente della Cop28 che è al contempo presidente di una delle principali compagnie petrolifere degli Emirati, ma abbiamo anche bisogno di tempo per mettere in atto un processo di trasformazione della produzione di energia. Tutto questo non può giustificare una assenza di presa di posizione da parte degli Stati. Il tema fondamentale è quello di trovare l’equilibrio tra un’assunzione di impegno cogente con delle date precise e il realismo della gradualità che può essere messo in pratica da Paesi che stanno dipendendo sempre più dalla fornitura energetica: non solo Cina e India, ma anche Paesi emergenti che hanno in corso dei processi di sviluppo, che noi stessi abbiamo auspicato per migliorare la qualità della vita e ridurre la povertà, che comportano un maggior consumo elettrico.
I crediti al carbonio: panacea per il cambiamento o ennesimo meccanismo perverso che premia i più furbi?
Non è tutto bianco e non è tutto nero. Il credito al carbonio è un meccanismo per cui un’azienda che non riesce ad evitare di emettere CO2 paga una sorta di compensazione in cambio di emissioni maggiori rispetto a quelle che gli sono state consentite. Pagamento che va a beneficio di chi sta lavorando per ridurre le emissioni o per assorbirle. Queste possono essere altre imprese, organizzazioni non governative, parchi. È chiaro che se tali strumenti sono utilizzati da soggetti che non hanno alcuna intenzione di cambiare la propria tecnologia per ridurre emissioni e lo fanno solo per consolidare i propri profitti, questo meccanismo risulta perverso: legittima l’inquinamento e lo rende possibile solo a chi è più forte economicamente. A questo meccanismo, però non accedono solo aziende che ignorano gli impegni in campo ambientale: molte aziende si sono prese come impegno la riduzione delle emissioni e, rendendosi conto che non riescono rapidamente raggiungere gli obiettivi assunti, annualmente compensano le emissioni con il meccanismo dei carbon credit. Inseriscono tali costi nei loro bilanci di sostenibilità e si danno dei target per gli anni successivi.
Nel momento in cui siamo in un percorso di questo tipo l’utilizzo dei crediti al carbonio diventa una pratica virtuosa...
Può diventare una prospettiva interessante, una buona pratica economica. Ma oltre ai limiti che abbiamo citato, ci sono ancora alcuni nodi. Da un lato la certificazione della reale riduzione delle emissioni, sia da parte dell’azienda che si impegna comunque in un programma di riduzione, sia da parte del beneficiario del credito che realizza iniziative in campo ambientale; dall’altro la questione della trasparenza. La negoziazione dei crediti al carbonio avviene attraverso diversi soggetti, che possono essere borse tematiche promosse da intermediari finanziari privati o istituzioni pubbliche. Manca un coordinamento e un vero monitoraggio super-partes. I carbon credit oggi non sono un meccanismo trasparente, e per questo non sono universalmente condivisi, anche se il principio è in sintonia con gli obiettivi che gli Stati si sono dati nel 2015 con i cosiddetti “Accordi di Parigi”. In ogni caso i carbon credit sono uno strumento residuale rispetto ad altre politiche che gli Stati e imprese dovrebbero impegnarsi a mantenere per la transizione energetica.
E, infine, a che punto siamo con il “debito ecologico” dei Paesi industrializzati verso i Paesi in via di sviluppo?
Siamo un po’ lontani. Il debito ecologico non è di per sé una categoria formalizzata in qualche maniera. È sicuramente un concetto che molti pensiamo reale, legato al fatto che i Paesi più industrializzati hanno, magari anche inconsapevolmente, almeno all’inizio, compromesso l’ambiente, che è di tutti. Evidentemente questi Paesi hanno una responsabilità verso chi ne ha subito i danni: inquinamento, cambiamento climatico, conseguenze sulla salute, impoverimento dei terreni, migrazioni, conflitti sociali... Non è stata misurata una contabilità di questi danni, ma di sicuro la loro responsabilità non è delle comunità del Sud del mondo. E a queste il Nord dovrebbe offrire qualcosa di più serio del paternalismo.