martedì, 19 novembre 2024
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Mario Paolini: pedagogista in cerca di identità

Diplomato in clarinetto al Conservatorio e poi musicoterapeuta, scrittore di diversi libri tra cui uno sul manicomio di Treviso, in cui racconta frammenti di vita e relazioni di cura. Fratello di Marco e, con lui, autore di uno spettacolo teatrale, “Ausmerzen” sullo sterminio dei disabili nel periodo nazista

E’ una immagine potente, quella mostrata al mondo, il 22 agosto 2005 a Ramallah: l’orchestra del grande direttore, Daniel Baremboim, comincia il suo concerto.

I musicisti sono poco più che ragazzi, israeliani e palestinesi, egiziani, turchi, giordani. Un esempio di come si può sedere insieme, cercando di suonare la stessa nota, nello stesso modo, senza per forza essere d’accordo ma non essendo più nemici. Potere di un mezzo, in questo caso la musica, che non costruisce la pace ma crea comunque mediazioni e ponti.

Questa storia me la rievoca Mario Paolini, pedagogista di lungo corso, diplomato in clarinetto al Conservatorio e poi musicoterapeuta, scrittore di diversi libri tra cui uno sul manicomio di Treviso, fratello di Marco e, con lui, autore di uno spettacolo teatrale sullo sterminio delle persone con disabilità nel periodo nazista.

Riusciamo a organizzarci per una chiacchierata insieme, vincendo la sua reticenza iniziale. Inevitabile con lui parlare di inclusione, di sfide educative, di strumenti con cui si possono affrontare le difficoltà, le solitudini, le lacerazioni del nostro tempo. Tra questi, la musica, ma non solo.

“Abitare le differenze, che è una eccellente sintesi di pensiero oltre che il titolo della sua ultima pubblicazione, è provare a stare nella complessità, con cura per le relazioni, con fiducia per le esperienze buone che si realizzano”.

“Viviamo un tempo di emergenza pedagogica, lo si vede nella fatica all’inclusione dentro la vita quotidiana della gente, nella tecnicizzazione delle professioni di cura ed educative, nelle risposte affidate ai servizi erogati con procedure e griglie ben precise, ma che spesso perdono in umanità”

Chi sei tu per me?

Paolini si definisce “pedagogista in cerca di identità”, nella misura in cui ogni giorno realizza la sua professione, ma anche la sua passione educativa e la ricerca che ne consegue, nella relazione con gli altri, a partire dai più fragili. Per lui “loro” sono le persone con disabilità, incontrate da ragazzo e da allora file rouge del suo percorso. “Sono stato un adolescente negli anni Settanta, faccio parte di quella generazione di uomini e donne che credevano molto nella politica e nell’impegno sociale; ho frequentato il Circolo Primo maggio a Santa Maria del Sile, eravamo un gruppo di ragazzi cresciuti con l’orizzonte dei valori della giustizia, dell’impegno, del testardo desiderio di cambiare il mondo”.

Nel 1983, a 25 anni, fa l’obiettore di coscienza all’istituto per disabili gravi di Ponte delle Alpi e – come accade a molti – l’incontro con la disabilità grave e adulta cambia la sua vita.

Talvolta, e ancora adesso, ne fa memoria perché non si devono dimenticare i momenti fondativi della propria esistenza. “Questa esperienza mi ha offerto uno specchio straordinario per guardare in me e comprendere che avvicinare ed entrare in relazione con le fragilità richiede studio, competenza e presenza”. A questo punto la sua biografia si “meticcia”, unendo insieme abilità diverse tutte accomunate dalla dimensione pedagogica: è stato co-fondatore del Centro di musicoterapia a Mestre, poi responsabile di un centro educativo diurno sempre in terra veneziana, in seguito ancora formatore di insegnanti, educatori e operatori, con incarichi nelle Università di Bologna, Pisa, Padova, enti e cooperative.

“Inciampa” nella vicenda dello sterminio dei disabili durante la Seconda guerra mondiale, grazie agli atti di un convegno tenutosi a San Servolo nel 1998.

Ne nasce lo spettacolo teatrale “Ausmerzen”, insieme a Marco Paolini che racconta come tra il ’39 e il ‘41 nella Germania nazista, prima di altri, vennero uccisi decine di migliaia di tedeschi: erano bambini e persone adulte con disabilità fisica o malati di mente, vite “indegne di essere vissute”. Nel luglio 1933, infatti, il regime aveva promulgato la legge per la sterilizzazione forzata di disabili psichici e fisici, primo atto del programma eugenetico voluto da Adolf Hitler.

E’ questa indagine che porta Mario Paolini, seguendo piste biografiche, a ficcare il naso nell’archivio del Sant’Artemio di Treviso da cui nascerà una tra le sue pubblicazioni più significative: “Un manicomio dismesso: frammenti di vita, storie e relazioni di cura”.

Oltre a ventottomila cartelle cliniche e a una biblioteca che dà ragione del contesto scientifico dei medici che vi lavoravano negli anni considerati, si trovano vari quaderni di annotazione che raccolgono elenchi meticolosi, vergati in bella calligrafia, di suppellettili, arredi, provvedimenti disciplinari o encomi riservati agli infermieri, beni personali sottratti ai pazienti al momento del ricovero: non c’era aspetto della quotidianità che non venisse sottoposto a questa sorta di metaforica radiografia. Le lettere degli internati e quelle dei loro cari, soggette a censura e spesso mai recapitate, ci raccontano, invece, storie cadute nell’oblio, ma anche l’evoluzione del modo di vivere la relazione di cura. Una cura intesa secondo il significato antico di sollecitudine per un altro in condizioni di particolare debolezza psicofisica e dunque come un processo che trasforma entrambi i soggetti della relazione stessa.

Esistono ancora i pedagogisti?

Mentre si racconta e riflette, Paolini cita Rodari e don Milani, il musicista venezuelano José Antonio Abreu e Daniel Pennac.

Uomini accomunati da passione educativa, dall’impegno a contrastare le diseguaglianze e a costruire ponti perché nessuno resti escluso.

Emergenza pedagogica

“Viviamo un tempo di emergenza pedagogica, lo si vede nella fatica all’inclusione dentro la vita quotidiana della gente, nella tecnicizzazione delle professioni di cura ed educative, nelle risposte affidate ai servizi erogati con procedure e griglie ben precise, ma che spesso perdono in umanità. Tutti elementi assolutamente necessari che devono, però, integrarsi con le dinamiche prioritarie e specifiche della pedagogia: l’incontro, la relazione con l’altro, la capacità di stare nella complessità e di riconoscerci tutti differenti”.

Non si nasce “imparati”: “Ho conosciuto molti operatori, e tra essi, alcune delle persone più straordinarie che mi sia capitato di incontrare – scrive in incipit al suo lavoro “Chi sei tu per me” -: quelle persone, per intendersi, che vorresti avere vicino in momenti importanti, di cui è bello fidarsi, perché sai che lo puoi fare. Non ho ancora capito se sono stato fortunato a conoscere gente così o se in qualche modo tali incontri siano più probabili in questo ambiente piuttosto che in altri: ho capito, però, che non si tratta di doti innate, che uno non nasce con l’istinto di fare l’operatore in relazione di aiuto, ma che si tratta di cose che si imparano e che questo lavoro, come tutti i lavori, è costituto di cose semplici, ma che vanno fatte nel modo giusto, di cose che si imparano e che si applicano tutti i giorni, tutti i momenti, in una fatica complessa e spesso poco gratificata ma che tuttavia a volte permette di restituire esperienze di una intensità impossibile altrove”.

La tecnica è, dunque, imprescindibile, eppure non basta (non sarebbe sufficiente neppure la relazione, da sola), e lo ha visto bene Mario Paolini nel periodo in cui si è occupato di formazione degli insegnanti di sostegno: “Se dopo il percorso vengono lasciati da soli, faranno molta più fatica a essere realmente di accompagnamento e aiuto”.

La cultura dell’inclusione è un’eccellenza della scuola italiana, non c’è alcun dubbio. Un esempio? Le recenti attenzioni ai bisogni educativi speciali non rappresentano una frammentazione dell’intervento educativo, ma sono la legittimazione della irrinunciabilità dell’azione educativa della scuola nel suo insieme. Per questo, a suo giudizio, servono alleanze educative autentiche, ancora una volta rispettose dei ruoli e delle peculiarità di ciascuno e, al contempo, capaci di porre al centro la dignità e la libertà di ogni uomo.

“A noi spetta il compito di continuare a essere ponti, a non avere paura di stare con responsabilità e consapevolezza nel presente, per guardare con ragionevole fiducia al futuro. Innanzitutto per me: sarebbe stato impossibile fare il mio mestiere se non avessi ritenuto, io per primo, che era possibile farlo!”.

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