La morte ha la forza di farci riconsiderare le priorità della vita e, forse, di dare loro un po’ di ordine....
XVII domenica Tempo ordinario: Un dono sovrabbondante di vita
In quest’anno liturgico che segue il vangelo secondo Marco, sono inseriti a integrazione narrativa e teologica, brani dal vangelo secondo Giovanni, come in questa domenica, con il racconto della “moltiplicazione dei pani” presentato secondo la versione giovannea. Nelle domeniche successive seguirà il lungo discorso in cui si interpreta questo «segno» (Gv 6,26-71).
Un “miracolo di prodigalità”. Tutto inizia appunto con un «segno», il quarto, centrale tra i sette proposti in Gv 1-12. E, infatti, il discorso che lo interpreta è particolarmente lungo e articolato, come vedremo più avanti. Prima di tutto, «il segno del pane abbondante è un miracolo di prodigalità» (Zumstein): è un gesto che anticipa i bisogni della «grande folla», al punto da manifestarsi come puro dono. Ed è dono sovrabbondante: di pane ne vien dato «quanto ne volevano», «finché furono saziati», e ne avanza pure, «dodici ceste». Tutto partendo dai «cinque pani d’orzo e due pesciolini» di un «ragazzino», per una folla a cui non sarebbe bastato il pane acquistato con il salario di un anno intero. Che sia una moltiplicazione di quel cibo da poveri (era pane d’orzo, non di grano), o il mettere in comune le provviste che ciascuno aveva con sé, visto il gesto iniziale di condivisione da parte di Gesù, in ogni caso si compie il miracolo di saziare la fame di una folla enorme, prima ancora che tale fame venga a chiedere pane. Ad affermare nei fatti quello che verrà esplicitato nel discorso successivo: l’unico che sa «da dove» procurare il pane necessario (v. 5) è Gesù, che come tale si manifesta Figlio del Padre, colui che «dà il cibo al momento opportuno», e così «sazia il desiderio di ogni vivente» (Sal 145,15-16). Si rivela come il vero pastore di Israele, che conduce a pascoli di erba sovrabbondante (Sal 23,1-2), di vita eterna (Gv 10,28). L’unico capace di saziare il desiderio di vita presente da sempre nel cuore di ogni uomo e donna, di ogni creatura vivente, pur nell’«insufficienza di quel che c’è» (Wilckens), e che è cibo che mai basterebbe, anche avendo i mezzi per acquistarne in quantità spropositata. Perché comunque il pane non basta a saziare il desiderio, che trascende quanto ci si può procurare con le proprie sole forze.
Un segno così semplice e così frainteso. Il segno si compie senza straordinarietà, sono parole e gesti tipici del buon capofamiglia ebraico: prende, rende grazie e dà (v. 11). L’unico accenno che va oltre è quel «rendere grazie» (in greco “eucharistein”), che nei sinottici e in Paolo è usato solo quando si parla della Cena appunto eucaristica. Ma l’estrema semplicità sembra voler sottolineare che tale dono sovrabbondante di vita si compie nella quotidianità dell’esistenza, se questa viene riconosciuta come dono benedetto di Dio di cui render grazie. E tale dono si colloca nella prospettiva di una “Pasqua che si avvicina”, la Pasqua di Gesù, che oltrepassa la pur grande «Pasqua dei giudei», origine di vita liberata per il popolo di Israele. E’ Pasqua la cui vita verrà donata a tutto il futuro popolo di Dio, che da quella morte e risurrezione avrà origine, e di cui le «dodici ceste» sono segno di attenzione per le fami future. La «grande folla» intuisce correttamente che chi è all’origine di quel cibo sovrabbondante è colui che «deve venire nel mondo» (v. 14). Ma rimane condizionata dalle proprie attese messianiche e lo pretende re secondo i propri desideri. Il pane sarà inteso come sazietà di cibo, e non come «segno» che fa interrogare su colui che lo dona (6,26).
Quale vita per tanta fame. Quanta fame di vita, e chi non la grida sono ancora i più poveri, chi non ha più nemmeno fiato per manifestarla, mentre chi è troppo sazio non si rende più neppur conto che nulla ancora l’ha davvero sfamato... Ma la fame resta, e si crede che qualsiasi “cibo” sia adatto a saziarla. Innumerevoli le ricerche di ognuno di noi per saziarci e tanto spesso deluse, a volte da truffa e inganno, e che possono originare violenze e sopraffazioni. Fino a condannare a morte colui che è venuto «perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (10,10), e che dà la sua propria vita per questo (10,15). Eppure, Gesù non cessa di offrirsi alle nostre “fami”, nel dono di sé che siamo chiamati a riconoscere per potercene nutrire. Dono che, se viene accolto, è così enormemente sovrabbondante da creare in noi capacità di condividerlo senza misura, perché la Pasqua è sorgente che mai cessa di far sorgere vita rinnovata. Come possiamo riconoscerla, questa vita che scombina le nostre attese e i nostri bisogni? Una traccia ci viene data: a inizio racconto, Gesù «sale sul monte» con i suoi, poi alla fine sul monte «si ritira, lui da solo». Il monte richiama all’incontro con Dio, è lo stare-con-lui che già Marco ci ricordava come esigenza ritenuta necessaria da Gesù, per se stesso e per coloro che aveva chiamato. Se qui viene riproposto come realtà che racchiude in sé il racconto di quello straordinario dono pasquale, allora anche a noi viene offerto come elemento necessario per accogliere quel dono. “Stare con lui sul monte” non per ritirarci da una storia difficile, segnata dal male, ma per scorgere con sempre maggior chiarezza come in quella storia Dio stesso sia presente, e come a ogni fame lui possa dare risposta di vita... perfino grazie a noi.