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Ius scholae: vantaggio di tutti

Intervista al pedagogista Daniele Novara

Il quesito referendario segue la querelle estiva sul tema dello “Ius scholae” e degli insegnanti di “sostegno linguistico” per i bambini stranieri. Per aiutarci nella riflessione sull’argomento, con uno sguardo pedagogico, abbiamo intervistato il prof. Daniele Novara fondatore e direttore del Cpp, Centro psico pedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.

Prof. Novara, qual è la sua opinione attorno al dibattito estivo sul tema dello “Ius scholae”, che consentirebbe il riconoscimento della cittadinanza italiana per i giovani che frequentano per 10 anni la scuola. Basta questo per sentirsi italiani?

E’ chiaro che la risposta più ovvia è che questa domanda vale per tutti, non solo per gli alunni di nazionalità non italiana... L’Italia è il Paese che ha il maggior indice di corruzione nell’Unione europea e quindi comprensibilmente il tema della cittadinanza non è un tema molto coltivato da chi nasce in Italia e, per legem, in automatico è italiano. Ci vorrebbe ben altro, per agganciare gli studenti ai valori costituzionali. Il problema di per sé, come si può facilmente intuire, non è una questione di quantità... Mio padre aveva solo la quinta elementare, ed era senz’altro molto cittadino italiano. Aveva rifiutato di partecipare alla Repubblica sociale da giovane ed aveva partecipato alle tante azioni di ribellione contro il fascismo. Lo “ius scholae” non può essere un elemento meccanicistico, ma è un elemento metaforico perché, anzitutto, consente di avere qualche sicurezza in più sul tema della lingua. A questo riguardo, sono molto contrariato dall’idea del ministro Giuseppe Valditara di mettere degli insegnanti specializzati nell’aiuto alla lingua per i bambini stranieri...

Perché è contrariato da questa proposta?

Perché i bambini stranieri, per imparare l’italiano, devono stare con i bambini italiani. Una logica scientifica di full immersion: è vivendo, giocando e facendo attività scolastica con i compagni italiani che imparano la lingua. Meno isoliamo i bambini, più abbiamo la possibilità che la cittadinanza venga acquisita, specialmente per quanto attiene la scuola dell’infanzia, che in Italia è di grande qualità, compresa quella delle scuole cattoliche paritarie. E’ dai 3 ai 6 anni che si creano i gangli che strutturano le competenze principali nello stare con gli altri. Come pedagogista farei come la Francia e la Svizzera, rendendo obbligatoria la scuola dell’infanzia come centrale per una buona partenza nell’apprendimento linguistico, delle regole e specialmente per “staccare” i bambini dal nido materno, e collocarli in un ambiente più legato ai processi di apprendimento.

Dal suo osservatorio, i giovani stranieri chiedono in primis di non essere discriminati come persone o di essere italiani per poter fruire degli stessi diritti?

Direi che è un fatto del tutto simbolico di appartenenza a una comunità sotto il profilo giuridico... E’ ovvio che poter votare permette di dire “chi sono anch’io!”. Viceversa, i ragazzi di origine non italiana, che non hanno ancora la cittadinanza, possono essere risucchiati nelle spire del vittimismo, e quindi dal rancore. E’ un vantaggio innanzitutto del nostro Paese dare al più presto a questi bambini e bambine la cittadinanza.

Gli ultimi dati del Ministero dell’Istruzione dicono che gli alunni con cittadinanza non italiana sono l’11,2 per cento. Da un punto di vista pedagogico, il compagno di classe che proviene da un altro Paese è un avversario o una risorsa?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un passo indietro... Bisogna ricordare che l’Italia ha una situazione molto particolare dal punto di vista migratorio. E’ l’unico Paese europeo che ha accolto persone provenienti da 195 nazionalità. Un numero pazzesco! Mentre gli altri Paesi europei si sono concentrati su migranti provenienti da aree specifiche - pensiamo alla Germania con i turchi, la Francia con persone provenienti dal Maghreb, la Gran Bretagna con l’area indo-pakistana, e si può andare avanti -, l’Italia, con una lingua non diffusa nel mondo, ha avuto in trent’anni un arrivo variegato di persone. Per queste ragioni, quando si fa un discorso sulle percentuali di stranieri dobbiamo pensare che stiamo parlando di 195 nazionalità diverse, che sono tra loro molto distinte. La scuola può fare molto soprattutto nei primi anni di vita. Bisogna rimuovere tutti gli ostacoli, perché i bambini possano andare alla scuola dell’infanzia, come parte integrante del percorso scolastico.

Conviene con l’attualità profetica di don Milani che la scuola è il luogo dove si costruisce la comunità, l’istruzione è lo strumento indispensabile per costruire una società migliore?

Assolutamente. Basti pensare anche solo di recente all’epoca del Covid. Tutti abbiamo ben capito l’importanza di tenere aperte le scuole. Nei pochi mesi che le scuole sono rimaste chiuse la Dad è stata un incubo... Lo stesso discorso vale per la lunga chiusura estiva delle scuole. La scuola è un presidio di convivenza, di cittadinanza, di costruzione delle competenze. Certo, non esiste un investimento sufficiente sulla scuola. Gli insegnanti non vengono formati adeguatamente, i dirigenti sono assunti su base amministrativa e non pedagogica. Siamo l’unico Paese europeo che non ha il pedagogista scolastico. E’ una vergogna da questo punto di vista, ma, nonostante questo, la scuola italiana, anche durante il periodo del Covid, è stata un presidio di resistenza. Dobbiamo aiutare la scuola a fare bene il proprio lavoro, cioè a essere comunità di apprendimento, che accoglie, ma che fa operare gli alunni con metodi partecipativi e cooperativi. Secondo me, va superata l’idea archeologica che si impara ascoltando, ma si impara facendo, si impara nell’applicazione e si impara con gli altri.

Per procedere su questa strada di cosa ha bisogno la nostra scuola?

La scuola ha bisogno di avere metodi giusti. Gli insegnanti si danno un gran da fare e sono encomiabili, nonostante gli stipendi bassi. Il sistema politico-governativo dovrebbe sostenerli.

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