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Editoriale: Senza rete di protezione

Sabato scorso il vescovo Michele ha ordinato sacerdoti quattro giovani del nostro Seminario. Con l’ordinazione iniziamo con Gesù un nuovo cammino, bello e entusiasmante finché si vuole, ma che, a volte, può portare verso zone impervie e inesplorate, o costringere ad attraversare un mare in tempesta o a compiere qualche salto nel buio, avendo come unica rete di protezione la parola del Maestro che ci ha chiamati

01/07/2021

Sabato scorso il vescovo Michele ha ordinato sacerdoti per la Chiesa diocesana quattro giovani del nostro Seminario. Questa volta mi sentivo particolarmente coinvolto, più del solito, perché uno di questi preti era mio compaesano e veniva ordinato dopo ben 44 anni dalla mia consacrazione. Ho vissuto l’ordinazione e la prima messa di questo giovane come un momento in cui, in qualche modo, passavo idealmente il testimone a qualcun altro e nel contempo mi sono sentito come sciolto dall’impegno che mi ero assunto di pregare il Signore affinché la mia parrocchia di origine potesse godere, prima o poi, della gioia e della benedizione di un nuovo sacerdote diocesano.

Un impegno costante
Bisogna convenire che quella del prete non è una vita semplice né priva di incognite. A dire il vero, oggi non lo è per nessuno, nemmeno per una coppia di sposi: le normali fatiche e le inevitabili croci che si incontrano sembrano, a volte, più pesanti da portare che in passato, e l’ambiente non è certo di sostegno e di aiuto.
Un giovane prete arriva al sacerdozio, dopo anni di formazione e di accompagnamento, con un bagaglio teologico e spirituale non indifferente, soprattutto in ordine all’identità e alla missione del prete e alle motivazioni che lo dovrebbero sostenere nelle sfide che il ministero deve affrontare in questo mondo. A volte, però, sembra che tutto questo non sia sempre sufficiente perché una crisi può essere lì all’angolo ad aspettare chiunque e innescare, anche in chi appariva o si sentiva più solido e sicuro di altri confratelli, un travagliato percorso dagli esiti incerti; un percorso a volte segnato dall’insoddisfazione e dal non senso per quello che si fa e dalla tentazione di provare a cercare in altri percorsi la felicità e il senso.

Può anche accadere che si provi ad arginare tali difficoltà ripiegando sulle cose di questo mondo e cercando consolazione e stimoli non più nel ministero e nelle comunità in cui si è a servizio, ma in se stessi e nelle proprie esigenze. E’ facile allora passare dall’essere “per il mondo”, all’essere “del mondo”.
Certamente, molto può dipendere dall’impegno personale che ci mettiamo per essere fedeli al Signore; nel rinnovare ogni giorno il dono di grazia che è in noi; nell’umiltà di chiedere aiuto fraterno. Non bisogna mai abbassare la guardia o lasciare che altri inquinino le motivazioni che ci sorreggono.

I condizionamenti del mondo
Non dobbiamo però sottovalutare il forte impatto e il condizionamento che la società secolarizzata e postmoderna ha nella vita delle persone e, quindi, anche nel prete. Un giovane sacerdote (o anche uno anziano), saggio e prudente, deve essere sempre consapevole del mondo complesso nel quale vive ed è inviato a svolgere il ministero. E che nelle comunità cristiane in cui si è mandati, niente deve essere dato per scontato, tanto meno il consenso. Per questo è sempre necessario “conquistarsi la piazza” e l’autorevolezza attraverso un servizio disinteressato e a tempo pieno, una vera condivisione con le gioie e i problemi della gente e un effettivo riconoscimento del sacerdozio dei fedeli.

Senza rete
Non dobbiamo inoltre dimenticare che, in seguito ai cambiamenti in atto nella Chiesa e alle sfide dell’evangelizzazione e della carità, quella a cui si avviano i sacerdoti oggi è davvero una situazione impegnativa, per non dire avventurosa, molto diversa da quella di quando io sono stato ordinato prete. Come assai diversa è la “tenuta” nella fede delle comunità cristiane e la loro effettiva capacità di accogliere e sostenere il proprio pastore.
A volte alcune insoddisfazioni nel ministero possono dipendere dal fatto che non ci si è buttati del tutto perché si è voluto, per sicurezza o per paura, tenere qualcosa per sé, quasi per volersi creare una sponda di riserva a cui aggrapparsi se le cose non andranno bene, o una eventuale rete di protezione per attutire le eventuali cadute.

Carlo Carretto, nelle sue “Lettere dal deserto”, scrive che quando decise di abbracciare la vita dei Piccoli fratelli, il maestro dei novizi gli chiese di “fare un taglio”. Capì subito che il taglio doloroso consisteva nel bruciare il grosso quaderno che conteneva migliaia di indirizzi di vecchi amici; il quaderno degli affetti e delle relazioni. In seguito, ripensando a quella dolorosa cesura, annota che di fronte a una scelta impegnativa per la vita bisogna affidarsi al Signore, attraversare il ponte e tagliare le funi che lo sorreggono. Solo allora, con il vuoto alle spalle e senza alcuna rete di protezione, si scopre che era necessario fare quel salto perché il Signore ci stava aspettando proprio sull’altra sponda, per iniziare con noi un nuovo cammino “in avanti”.

Con l’ordinazione iniziamo con Gesù un nuovo cammino, bello e entusiasmante finché si vuole, ma che, a volte, può portare verso zone impervie e inesplorate, o costringere ad attraversare un mare in tempesta o a compiere qualche salto nel buio, avendo come unica rete di protezione la parola del Maestro che ci ha chiamati. Bisogna credere che tutto è possibile in colui che ci dà la forza e che, comunque e in ogni caso, come è accaduto per Abramo e il figlio Isacco che si accingevano al sacrificio, “sul monte il Signore provvede” (Gn 22,14). Quando si rischia per Gesù si può essere certi che, nel momento in cui abbiamo l’impressione di affogare, di fronte alla nostra invocazione: “Signore salvami”, egli è pronto, come con Pietro, a stendere la mano e tirarci fuori dalle acque.

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