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Editoriale: Il politicamente scorretto

L’ossessione del politically correct può portare a situazioni grottesche e far deragliare da ogni buon senso. Ne abbiamo avuto un saggio eloquente nei giorni scorsi allorquando nei palazzi di Bruxelles è circolato un documento “interno” contenente “linee guida per una comunicazione inclusiva” nel quale si chiedeva di non usare nelle varie comunicazioni termini cristiani come quello di “Natale”

09/12/2021

Da alcuni anni si è imposta una particolare attenzione verso il politicamente corretto (politically correct), ossia quelle condotte, comportamenti, espressioni improntati al rispetto nei riguardi dell’identità politica, etnica, religiosa, sessuale e sociale delle minoranze e dei gruppi socialmente più deboli. Nulla da eccepire, anzi, un notevole passo avanti verso l’accoglienza e il rispetto di tutti. Se non fosse che, sempre più frequentemente, la promozione dei diritti delle minoranze viene ideologicamente usata per sminuire o cassare i diritti di tutti gli altri. Questo avviene, sovente, in campo religioso e morale. Emblematica è la polemica che in questi anni si è polarizzata attorno alla teoria “gender”, alla quale molti imputano di propagandare l’inesistenza di ogni differenza tra i sessi biologici. Il ddl Zan è finito in un binario morto non tanto perché mirava a contrastare l’omofobia e ogni forma di discriminazione sessuale, ma perché in alcuni articoli prevedeva, non senza una certa ambiguità e contro la mentalità e il sentire della stragrande maggioranza della gente, la promozione, a partire dalle scuole, di una cultura che mirasse a superare la differenza tra i sessi.

Annullare le differenze
L’ossessione del politically correct può portare a situazioni grottesche e far deragliare da ogni buon senso. Ne abbiamo avuto un saggio eloquente nei giorni scorsi allorquando la commissaria europea per l’Uguaglianza, la maltese Helena Dalli, ha fatto circolare nei palazzi di Bruxelles un documento “interno”, destinato ai funzionari della Commissione (poi ritirato in seguito alle polemiche), contenente “linee guida per una comunicazione inclusiva” nel quale, in nome di un generico e, secondo noi, ridicolo, rispetto di tutte le sensibilità religiose e culturali, si chiedeva di non usare nelle varie comunicazioni termini cristiani come quello di “Natale” e di non fare esempi utilizzando solo nomi quali Giuseppe, Maria, ecc. In sostanza, in nome dell’inclusività si privava la maggioranza “cristiana” dell’Europa del diritto di conservare ed esprimere pubblicamente la propria identità religiosa, culturale e linguistica.

Bisogna dire che la cosa ha avuto nei media una risonanza esagerata, anche perché il documento conteneva molte altre raccomandazioni, volte a evitare un po’ tutte le discriminazioni sociali (verso le donne, le etnie minoritarie, le religioni diverse dal cristianesimo, le persone con disabilità, ecc.) e non solamente verso la religione cristiana.
Ad ogni modo, come ha ben detto il Segretario di Stato, card. Pietro Parolin, la pretesa di omologare tutto porta inevitabilmente alla negazione delle differenze. L’antropologo francese René Girard diceva che il nostro errore è di ritenere che la radice dei mali e dei conflitti siano le differenze e non, piuttosto, la competizione e la “rivalità mimetica” tra persone, Paesi, culture.

Tra politicamente corretto e laicità
Purtroppo questa ideologia del politically correct che mira a dissolvere le differenze dilaga un po’ ovunque, sta diventando cultura e, grazie alla pressione di particolari gruppi sociali e politici minoritari (a volte vere lobby), ideologicamente ben connotati e assai combattivi, riesce a trasformarsi in norme e progetti legislativi ai quali, poi, tutti devono sottostare. La scuola è stata la prima istituzione a essere investita dal problema: crocifisso nelle aule, presepe a Natale, canti a contenuto religioso e altro, hanno subito l’avversione e a volte l’ostracismo degli alfieri del politicamente corretto, in nome del rispetto della presenza nelle aule di religioni e culture (minoritarie) diverse da quella cristiana e di una ambigua idea di “laicità” di stampo ottocentesco, che porta a ritenere tabù ogni pubblico riferimento e discorso religioso. Ci troviamo di fronte a una forma moderna di “iconoclastismo” religioso e culturale che muove dalla pretesa di conferire una certa “neutralità” al linguaggio (anche nella sessualità biologica e nel genere) e di confinare ogni espressione religiosa nel privato.

Oltre ogni intransigenza
Alla fine, la troppa preoccupazione per il politically correct, con la pretesa di annullare ogni differenza e identità, può anche degenerare nel “politicamente scorretto”. Alla lunga, il risultato non potrà essere altro che una indistinta melassa culturale, nella quale dal linguaggio iconico e verbale scompare ogni distinzione di religione, sesso e genere.
Eppure, ci sembra che, fatti salvi i diritti e i doveri che riguardano ogni cittadino, indipendentemente dalla sua cultura e tradizione, rimanga pur sempre vero che in democrazia le maggioranze hanno diritto di esistere, di esprimersi e di impegnarsi affinché la legislazione recepisca e promuova determinati valori etici che appartengono alle proprie radici religiose e culturali.
E’ chiaro che il problema è molto delicato e complesso perché, quando di mezzo c’è la religione, si può facilmente scivolare in quelle forme di intransigenza e di integralismo che non potranno mai favorire e sostenere la civile e pacifica convivenza delle differenze. I così detti “talebani” o intransigenti difensori delle tradizioni cristiane e quelli della laicità, corrono il rischio di radicalizzare i conflitti e alzare muri, impedendo l’effettivo instaurarsi di una pacifica società democratica multiculturale e multietnica, nella quale sarà sempre necessario, anche se molto impegnativo, trovare delle sintesi normative che tengano conto delle esigenze delle maggioranze e delle sensibilità delle minoranze.

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