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Intervista a mons. Cevolotto: “Per me Magnani è stato un padre”

L’attuale vescovo di Piacenza è stato il segretario di mons. Magnani per nove anni e mezzo: “Mi «accusava» di voler sempre avere l’ultima parola. Ero giovane, mi mise subito a mio agio”
10/11/2023

“A lui ho sempre dato del lei, mi ha chiesto di essere suo segretario quando ero prete da appena quattro anni. Ma mi ha sempre concesso una grande familiarità, un rapporto molto schietto. Anzi, a dire il vero, mi «accusava» di voler sempre avere l’ultima parola”. Per nove anni e mezzo, la principale “via d’accesso al vescovo” è stato don Adriano, il giovane segretario che mons. Paolo Magnani si era scelto, al suo arrivo a Treviso. Mons. Adriano Cevolotto, da circa tre anni vescovo di Piacenza, ricorda così, con grande affetto e gratitudine, mons. Magnani. “Ho cercato di mettere in pratica ciò che mi aveva confidato il segretario di Lodi, mons. Egidio Miragoli (ora vescovo di Mondovì): «Alla fine, il segretario è l’unico che può dire al vescovo le cose come stanno»”. Don Adriano è contento di essere riuscito a salutare il “suo vescovo”, per l’ultima volta, il giovedì prima della morte. Un legame forte, appunto, quello tra il pastore e il sacerdote (che dopo essere stato segretario venne nominato rettore del Seminario), a sua volta diventato vescovo, per giunta di una diocesi che si trova sulle rive del Po, anche se sul lato emiliano, mentre mons. Magnani, nato a Pieve Porto Morone, era “figlio” della riva sinistra, sul lato pavese. Con mons. Cevolotto “riavvolgiamo il nastro dei ricordi”, partendo proprio dai primi tempi.

Come andò, nei primi tempi, con mons. Magnani?

Devo confidare che non accolsi con molto entusiasmo la chiamata del Vescovo. Ero giovane, mi sembrava una cosa impegnativa. Ma mons. Magnani mi mise fin da subito a mio agio, avvertii fin dall’inizio la sua paternità, ci fu attenzione ai tempi e ai modi con cui esercitare il mio servizio. Ebbi anche la possibilità di una minima attività pastorale, nella parrocchia di San Liberale e con gli obiettori Caritas.

Cosa caratterizzò, inizialmente, il ministero del nuovo Vescovo?

Mi colpì, fin da subito, una cosa. Si riservò, inizialmente, di conoscere le persone e la realtà della diocesi, non ebbe fretta. Alcuni aspetti della Chiesa trevigiana erano lontani dalla sua formazione, ma li accolse come parte di una storia. Mi ricordo che diceva: “Con i numeri di sacerdoti che ha Treviso, se fossi a Pavia o a Lodi, farei due Seminari”. Assunse il cammino diocesano impostato da mons. Antonio Mistrorigo in seguito al Sinodo degli anni Ottanta. La parte sull’evangelizzazione e la catechesi già si era svolta, andò avanti con le priorità della liturgia e della carità. Ebbe l’onestà di entrare in una Chiesa che aveva una storia differente dalla sua, introducendo, poi, alcuni aspetti che gli erano cari: l’attenzione agli oratori e ai Grest, per esempio, i frequenti incontri diocesani... Colse fin da subito la fraternità tra i sacerdoti. Una cosa a cui tenne molto fu proprio la diocesanità, un senso ecclesiale, che comprendeva anche la sua figura di vescovo. Ecco, allora, per esempio, l’attenzione al patrono san Liberale. La sua attenzione, però, si rivolse a tutta la pastorale e al territorio, con la valorizzazione dei Consigli pastorali, l’attenzione ai gruppi liturgici, alle Caritas parrocchiali, all’Azione cattolica. Ha impostato una riforma della curia e degli uffici diocesani che, in buona parte, ha “tenuto” fino a oggi.

“Si faceva vivo con anziani e ammalati. Ricordava con precisione situazioni di persone semplici”

Mons. Magnani sembrava a volte un po’ distaccato, ma teneva molto alle relazioni con le persone...

Sì, era una persona un po’ timida, ma aveva delle belle attenzioni nei confronti delle persone. Si faceva vivo con anziani e ammalati. Ricordava con precisione situazioni e testimonianze anche di persone semplici, sapeva cogliere la vita spirituale di coloro che incontrava. La sua vita episcopale è stata anche segnata, in profondità, da alcuni momenti di grande dolore. Era tutt’altro che una persona fredda, e lo si vide particolarmente durante la Visita pastorale, un importante capitolo del suo ministero episcopale. Non a caso, il successivo Sinodo, ha messo a tema proprio la parrocchia.

Da segretario, lo accompagnò anche in alcune visite “forti”, che segnarono il suo rapporto con il territorio e la società civile: le strutture “occupate” dai migranti, come l’ex Scardassi a Castelfranco, o il campo nomadi di Fiera. Come vennero vissute?

Si è trattato di scelte molto precise, che lo hanno esposto; ha avuto questo coraggio, anche se nella sua precedente esperienza, a Lodi, non aveva vissuto situazioni di questo tipo. Era , in ogni caso, consapevole dell’importanza del suo rapporto con la politica e le Istituzioni. In qualche occasione, mi confidò di percepire rapporti “poco chiari”, a Lodi era maggiormente abituato a confrontarsi sui problemi. Posso dire che ha sempre mantenuto la sua libertà, non è mai stato compiacente per il quieto vivere.

Teneva molto anche alle missioni. Cosa ricorda dei suoi viaggi?

Ne fece parecchi. Con i Trevisani nel mondo si spostò dall’Uruguay, all’Argentina, al Cile, incontrando numerosi missionari. Andò varie volte in Africa e Sudamerica. Teneva al rapporto con i missionari, cui indirizzava una lettera a Pentecoste. In raccordo con don Franco Marton, decise l’apertura delle missioni in Ciad, in Paraguay, a Manaus.

Il rapporto con lui è proseguito anche negli ultimi anni?

Sì, abbiamo continuato a sentirci. Dopo la mia nomina a vescovo, sono andato varie volte a trovarlo. Fino a due - tre anni fa, aveva conservato intatta la sua capacità di leggere e approfondire, mantenendo la sua vivacità intellettuale.

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