giovedì, 26 dicembre 2024
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Scuola, serve un nuovo patto con le famiglie

Armando Tivelli, presidente regionale veneto dell’Associazione presidi, analizza la crescente conflittualità nel mondo scolastico.

Studenti, di tutte le età, le loro famiglie sono alle prese in questo periodo con gli open day, particolarmente importanti per la scelta dell’indirizzo della secondaria di II grado, la scuola superiore che segnerà il percorso di studio dei giovani. È un evento ormai consolidato, che permette a migliaia di famiglie di valutare le offerte formative presenti sul territorio. Un evento che impegna molto le scuole nel far vedere tutto ciò che rende unico e attraente quell’istituto rispetto ai “concorrenti”.

Nelle ultime settimane hanno fatto discutere le dichiarazioni di una preside di un liceo di Bari, che, proprio a un open day, ha detto che il suo ruolo non è quello di “vendere detersivi” e ha messo in luce, di fronte alle famiglie, quali siano, invece, i problemi che, in generale tutte le scuole oggi si trovano ad affrontare, soprattutto per una mancanza di collaborazione tra ente scolastico e genitori degli alunni. Un discorso che ha trovato unanimi consensi in tutto il Paese.

Armando Tivelli, presidente regionale veneto dell’Anp, Associazione nazionale presidi, conosce bene il tema: “Che agli open day ci possa essere un aspetto di marketing, è vero, come è vero che il problema può essere diverso tra istituti troppo numerosi, che non possono accogliere tutti i desiderata e quelli che hanno difficoltà a raggiungere certi numeri, mettendo, così, in pericolo la stessa esistenza della classe e, più in là, anche dell’istituto”.

Quanto contano la nomea dell’istituto e le classifiche, come, ad esempio, quella recente di Eduscopio, per la scelta dell’istituto scolastico?

Non credo che le graduatorie siano estremamente rilevanti. Per il trend dei licei, ad esempio, conta molto la capacità di attrazione da parte dei pari che hanno ascendenti sul gruppo dei coetanei. E, poi, agevola molto la scelta anche l’attesa delle famiglie rispetto a ciò che vorrebbero per i propri figli.

Nel discorso della preside barese, c’era proprio anche l’atteggiamento delle famiglie che indirizzano i figli a coltivare sogni di gloria e di ricchezza e, quindi, la scuola viene scelta in base a questo. Ne è convinto anche lei?

Dati oggettivi non ce ne sono, ma è abbastanza evidente che i desideri dei genitori incidono sulla scelta del percorso di studio dei figli. Invece, dovrebbero aiutare i ragazzi a compiere scelte sempre più coerenti con quelle che sono le competenze acquisite fino a quel momento, ma soprattutto con i loro interessi, perché è solo quello che li motiverà, poi, nello studio. È così anche per la scelta di uno sport: uno può essere anche bravo inizialmente, ma se non gli piace, non renderà. Non ha senso obbligarli a una scelta che non condividono.

Ultimamente sembra che i genitori siano presenti nella scuola solo per lamentarsi con gli insegnanti, giustificare i figli, presentare ricorsi... E’ aumentata la conflittualità tra le due parti, secondo lei?

Anche qui, senza entrare nel dettaglio di numeri che non conosco e non so se ci siano, è da qualche anno che la conflittualità è aumentata. Come si dice con una frase ricorrente: “I genitori non dovrebbero fare i sindacalisti dei figli”. Non succede sempre, ma c’è un aumento esponenziale a proteggere il figlio o la figlia anche quando questi hanno avuto comportamenti palesemente e incontestabilmente negativi. È un aspetto preoccupante: da una parte questo eccessivo permissivismo e dall’altro l’iperprotezionismo sono due aspetti che, messi insieme, sono altamente deleteri.

Protetti anche quando sono autori di atti di bullismo, pare. Social, conseguenze dell’isolamento causato dal Covid, incapacità di educare: cosa incide su questi comportamenti negativi dei ragazzi?

Sono tre cose separate, ma che c’entrano tutte. È evidente che le famiglie abbiano un minor controllo sui comportamenti dei figli, è un dato di fatto che siano meno allenati a dire di no ai figli. E la funzione educativa è in capo, prima di tutto alla famiglia, non alla scuola. Non è che la scuola sia la panacea per risolvere tutti i problemi della società. Dobbiamo educare a questo, a quello, a quest’altro...no. I social sono sicuramente pervasivi, ma, anche qui, conta l’educazione avuta in famiglia. In Estonia non c’è alcun vincolo all’uso del cellulare a scuola, ma è regolato e rispettato dagli studenti. Il Covid ha avuto sicuramente un impatto più pesante sui giovani, ma non vorrei che ancora una volta fosse un facile pretesto per tenere comportamenti non adeguati.

In tutto questo, poveri insegnanti...

La mia risposta è di uno che ha diretto scuole e osservato le dinamiche negli anni. Il ruolo dell’insegnante ha perso da tempo prestigio sociale, e questo impatta significativamente sul rispetto preventivo, per la persona e per il ruolo che svolge. E’ sempre più difficile il suo ruolo anche dal punto di vista didattico, perché vengono contestate dalle famiglie anche le sue competenze e la sua capacità di giudicare la preparazione dei figli.

Vede la possibilità che questo rapporto tra scuola e famiglia possa cambiare a breve?

Occorre riscoprire un rapporto di collaborazione tra famiglia e scuola, che non c’è più. Voglio sottolineare che la scuola non è il luogo dove parcheggiare bambini e adolescenti, gli insegnanti non sono assistenti sociali. Certo, devono aiutare i ragazzi a crescere dal punto di vista umano e relazionale, ma sarebbe illusorio pensare che mettendo un’ora in più di educazione a questo o quello, si possano risolvere problemi che sono tutt’altro che semplici. Si può fare solo lavorando spalla a spalla con le famiglie, ribadendo che i primi educatori sono i genitori.

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