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Migranti, tre anni dopo l’incendio di Lesbo l’Europa continua a non apprendere la lezione

Dopo tre anni le condizioni di vita dei migranti sono addirittura peggiorate, causando disturbi mentali, atti di autolesionismo e violenze sulle donne. A dirlo è l’associazione umanitaria Intersos nel suo ultimo report, realizzato attraverso centinaia di interviste, da cui emerge tutta la disumanità del campo temporaneo – ormai stabile – di Kara Tepe

9 settembre 2010. Sono passati tre anni dall’incendio del campo profughi di Moria, nell’Isola di Lesbo, in Grecia, il più grande d’Europa e per molti aspetti doveva essere simbolo del modello di accoglienza del ‘fortino’ Europa. Le fiamme divampate nel campo, bruciandolo completamente, lasciò più di 11 mila persone sfollate e senza nulla, neanche il poco che avevano nelle proprie tende. Di morti per fortuna non ce ne sono stati ma le tragiche conseguenze sono visibili ancora oggi.

Moria era un campo governativo per richiedenti asilo, costruito al centro dell’Isola di Lesbo e pensato per ospitare circa 3 mila persone ma che nel marzo del 2020 ne ha ospitate oltre 20 mila. Era il momento in cui Erdogan decise di far pressione sull’Europa aprendo le frontiere turche e incentivando i profughi presenti nel suo Paese a muoversi verso i confini, sia nei pressi di Kastanies (ndr prima cittadina greca dopo il confine europeo della Turchia), vicino alla confluenza dei fiumi Evros e Ardas, sia verso le vicine spiagge, di fronte alle coste turche, delle isole di Lesbo e Samos.Per Medici Senza Frontiere era “il peggior campo sulla terra”, per Human Watch Rights “una prigione a cielo aperto”, per quelli che ci sono passati “l’inferno di Moria”. Papa Francesco il campo l’ha visitato due volte (nel 2016 e nel 2021) definendolo come “il naufragio della civiltà”.

Dopo tre anni le condizioni di vita dei migranti sono addirittura peggiorate, causando disturbi mentali, atti di autolesionismo e violenze sulle donne. A dirlo è l’associazione umanitaria Intersos nel suo ultimo report, realizzato attraverso centinaia di interviste, da cui emerge tutta la disumanità del campo temporaneo – ormai stabile – di Kara Tepe. La ricerca si concentra sulle testimonianze delle 165 persone che hanno ricevuto supporto psicologico e psichiatrico continuativo e sulle 701 persone che hanno goduto del supporto psicosociale fornito da Intersos. Persone che in alcuni casi possono trovarsi a trascorrere sull’isola anche diversi anni, in attesa di una risposta sul loro status o di essere ricollocate altrove, senza alcuna certezza sulle modalità e le tempistiche dell’iter che le attende. A tre anni di distanza, quello che è certo è che l’Europa non è riuscita a ripensare le sue politiche migratorie, perché dopo l’incendio poteva farne un modello per riorganizzare l’accoglienza, redistribuire le persone e pretendere che gli Stati membri si facessero carico delle poche migliaia di persone; invece ha rimpiazzato l’inferno con un altro inferno, una prigione con un’altra prigione. E così il mare nostrum continua ad essere il mare mortuum.

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